Nel cinema americano degli anni Ottanta, così desideroso di grandi avventure, celebrazioni edonistiche e riscoperte rurali, William Hurt (scomparso ieri all’età di 71 anni) portava in dote un cuore spezzato. “And how can you mend a broken heart?” cantavano i Bee Gees: giochiamo naturalmente su un’assonanza con il cognome del divo, ma è evidente che tutti i suoi personaggi sembravano segnati da un disagio lancinante, un dolore così ingombrante da ricadere sugli altri, la struggente consapevolezza di sentirsi fuori posto. D’altronde Hurt vuol dire ferito, e chi era più ferito a morte di William Hurt?

Come se tutto il suo quarantennale percorso fosse determinato dagli Stati di allucinazione del film con cui debuttò nel 1980. La storia del professore che si isola e conduce su se stesso gli esperimenti psichedelici per analizzarsi e ritornare a una specie di memoria collettiva ancestrale è una traccia per capire la carriera di un attore che ha usato la propria immagine per far emergere la vulnerabilità di una generazione che ha conosciuto le droghe, subito la guerra, assistito al tramonto delle ideologie.

Lawrence Kasdan, il regista che più l’ha amato e accompagnato nella sua stagione di gloria, ne ha colto perfettamente l’affascinante contraddizione: un biondo con gli occhi azzurri e il fisico prestante, uno yankee che giusto qualche decennio prima avrebbe tranquillamente cavalcato nei western salvandoci dagli indiani cattivi, tormentato dai demoni collettivi dunque personali. Alla ricerca costante di un nuovo senso della vita tentando di risolvere il conflitto tra ideali e desiderio, Hurt non si vergognava di essere testimone della debolezza in una nazione bisognosa di uomini forti da celebrare, consumare, ingerire, sacrificare.

William Hurt in Brivido caldo (Webphoto)

Kasdan ne fa trait d’union tra passato e presente, eleggendolo a icona neoclassica con Brivido caldo, il noir che convoca i fantasmi di un mondo perduto portando la temperatura erotica ad alture prima proibite. Hurt appare per la prima volta di spalle, completamente nudo, mentre guarda un incendio in lontananza e si lamenta del caldo infernale, mentre la sua partner Kathleen Turner in abito bianco impone a Hurt di verificare quanta purezza non ci sia in lei: “non dovresti portare quel corpo”, le dice.

Con una manciata di film, Hurt si configura come un catalizzatore delle ossessioni fisiche del decennio: in questo senso è a pieno titolo erede della scuola new hollywoodiana, spingendo il corpo ai limiti, picconando la sensualità machista (Il bacio della donna ragno, che gli vale l’Oscar e il premio come miglior attore a Cannes), decostruendo l'apparenza yuppie per cristallizzarsi in pura immagine televisiva (Dentro la notizia), confrontandosi con le mancanze altrui per scoprirsi egli stesso monco (Figli di un dio minore), ribaltando stereotipi (Ti amerò… fino ad ammazzarti).

Un discorso già nitido nel capolavoro di Kasdan, Il grande freddo, in cui Hurt è fenomenale nel suo essere un veterano drogato che è soprattutto reduce di se stesso, instabile e lucido, impenetrabile e caustico. “Siamo tutti soli, là fuori, e domani ci ritroveremo là fuori di nuovo” sentenzia di fronte ai turbamenti degli amici, definendo tanto l’ineluttabilità dei gesti quanto l’impossibilità di salvarsi da soli.

E che si compie nell’altra punta di diamante di Kasdan, Turista per caso, un film che sembra nato per dare un po’ di pace a Hurt, interprete dalla vocalità meravigliosa che qui sussurra fuori campo dentro il vestito grigio di un uomo devastato dai lutti (il figlio, il matrimonio, la vita) alla ricerca di un nuovo senso da cui ripartire. Arrivando fino alla fine del mondo, citando un’altra esperienza sensoriale di questo attore che negli ultimi trent’anni solo occasionalmente (l’exploit di Smoke, l’inattesa candidatura all’Oscar A History of Violence, Too Big to FailLa scomparsa di Eleanor Rigby che ne certificano lo statuto autorevole e carismatico) ha potuto esporci lo stato delle sue ferite.