Ammettiamolo. Quel segno meno (-15% rispetto a un anno prima) registrato in primavera-estate dall'altra parte dell'Oceano ci aveva fatto tirare un sospiro di sollievo: se il cinema perde colpi anche in America, sussurravamo, allora il problema non siamo noi! Pensiero stupendo (e miserabile).
Sono bastate poche settimane perché Hollywood riprendesse a marciare dopo il breve passaggio a vuoto. E' bastato un thriller "sui generis" come Gone Girl - attenzione: non una fantasy-saga o un polpettone Marvel, ma un thriller d'autore! - a far tornare il sereno sul box office: il film di David Fincher ha guadagno 78,3 milioni $ in due settimane trascinandosi dietro tutto il comparto: solo nell'ultimo weekend gli sono andati dietro Dracula Untold (23,5 milioni $), il disneyano Alexander and the Terrible, Horrible, No Good, Very Bad Day (19, 1 milioni $), Annabelle (16,4 milioni $, che fanno 62,2 mil $, sommati a quelli che l'horror low budget della Warner aveva intascato una settimana fa) e The Judge (13,3 milioni $). Complessivamente il botteghino Usa ha segnato nell'ultimo weekend 149 milioni $ di valore complessivo, ovvero un +28, 2% rispetto allo stesso weekend dello scorso anno. E le prospettive sembrano ancora più rosee se si considerano i titolo attesi per novembre-dicembre. A novembre (il 7) arriverà l'asso pigliatutto della Warner, lo sci-fi Interstellar, di cui poco si sa se non che è infarcito di star (Matthew McCounaghey, Anne Hathaway, Jessica Chastain, Michael Caine) e che è diretto da un campione del guadagno assicurato come Christopher Nolan (quello della trilogia del Cavaliere oscuro, per capirci). Trama top secret - dal trailer si intuisce una fuga dal pianeta terra in cerca di lidi cosmici più accoglienti - e insider hollywoodiani che millantano visioni segretissime ed entusiasmanti (da ultimo è arrivato l'endorsement di Paul Thomas Anderson che invita caldamente ad andare a vedere il film). Sulla carta Interstellar dovrebbe quantomeno ripetere l'exploit di un altro sci-fi Warner, Gravity, che lo scorso anno fece saltare il banco con 275 milioni $ incassati in patria e il riconoscimento dell'Academy (vinse 7 Oscar).
Ma novembre è anche il mese di Hunger Games: il canto della rivolta - parte 1, che dovrebbe tranquillamente confermare lo score dei due precedenti capitoli (ben sopra i 400 milioni $, solo negli USA), mentre a dicembre sono in arrivo Lo Hobbit: la battaglia delle cinque armate, I pinguini di Madagascar della Dreamworks - spin-off di Madagascar - e Una notte al museo 3 - Il segreto del faraone, tutti potenziali blockbuster.
L'obiettivo di Hollywood è chiudere il quarto trimestre dell'anno - quello tradizionalmente più ricco - sui livelli di quello del 2013, che si attestò su un impressionante 2, 7 miliardi $. Missione impossibile? Tutt'altro.
Hunger Games e Lo Hobbit c'erano anche lo scorso anno; Interstellar ha tutte le carte in regola per eguagliare (e superare) Gravity; tra le commedie Una notte al museo 3 dovrebbe far meglio di Un candidato a sorpresa 2 (che lo scorso anno incassò la bellezza di 130 mil $! Comunque meno delle due precedenti Notti al museo, che viaggiano su una media di 200 mil $); le incognite riguardano semmai I pinguini di Madagascar, che nell'animazione dovrebbe raccogliere il testimone di Frozen (400 mil $ in patria lo scorso anno), e il kolossal biblico di Ridley Scott, Exodus, rivolto alla stessa fascia di pubblico che lo scorso anno premiò The Wolf of wall Street di Scorsese (116 mil $ al botteghino USA). E se a Hollywood ricominciano a sorridere, noi abbiamo smesso di farlo da tempo. In Italia l'emorragia di spettatori dalle sale sembra inarrestabile: il box office dell'ultimo weekend ci ha lasciato l'ennesimo segno "meno" (- 31% rispetto a quello dello stesso periodo di un anno fa). Una situazione così conclamata, che invece di spingere a cercare soluzioni alimenta ormai una muta rassegnazione.
D'altra parte da noi il dibattito sul cinema continua ad essere ostaggio della richiesta di agevolazioni fiscali, di episodiche celebrazioni collettive (se e quando vinciamo qualcosa a livello internazionale) e dei piagnistei sul bel tempo andato (che non ci risparmia nemmeno il grottesco situazionismo de' Noantri: vedi occupazione Cinema America e levata di scudi generale).
Si dice spesso che manca una politica industriale. Ci sembra invece che di politica nel cinema italiano ce ne sia troppa: consorterie pubblico-private, intrecci familiari sudditanza a mezzo stampa, fanno sì che permanga una realtà di stagnazione, in cui l'infima qualità della nostra produzione alimenta (ed è alimentata da) l'impoverimento del pubblico, tanto nei numeri quanto nel gusto.
L'impressione è che lo storico pregiudizio contro il mercato, unito all'inconfessabile idiosincrasia della nostra classe dirigente nei confronti dell'eccellenza artistica (al di là dei proclami e dei tripli carpiati sul carro dei vincitori, permane una specie di "sindrome da neorealismo" di democristiana memoria), ha prodotto il classico né carne né pesce nazionale. Ben rappresentato peraltro dal paradosso dei tre festival internazionali di cinema (venezia, Roma, Torino) che l'Italia, unicum in Europa, si ostina a mantenere.
Per un paese senza più un pubblico ci sembrano francamente troppi.