Magari le palestre, vuoi per la crisi economica, vuoi per minor fascino, non saranno piene come una volta, ma le arti marziali al cinema sono ancora molto vigorose, inseguite e rappresentate. Wong Kar-wai ha impresso il marchio d'autore al genere con The Grandmaster, presentato a Berlino, ma il vero maestro, applaudito e riverito da migliaia di fan, rimane Herman Yau, hongkongese prolifico, al Far East di Udine per presentare l'ultimo capitolo della saga dedicata a Ip, il leggendario fondatore della scuola wing chun e maestro di Bruce Lee da bambino, alle cui classi non si insegnano soltanto le tecniche di difesa, ma una vera e propria filosofia di vita. Ip Man – The Final Fight è uno dei titoli di punta dell'ampia selezione di film orientali presentati nell'ambito della manifestazione friulana, anche se il numero maggiore di titoli e curiosità proviene quest'anno dalla Corea, e non solo quella del Sud: molto attesa, infatti, è la premiere italiana di Comrade Kim Goes Flying, rarissimo esempio di coproduzione internazionale in cui l'industria cinematografica del cosiddetto “impero del male”, ossia il Nord, naturalmente controllata dallo Stato e dal suo “padrone”, si apre all'occidente con il regista nordcoreano Kim Gwang-hun intercettato dal produttore britannico Nicholas Bonner e dalla belga Anja Daelemans. Protagoniste due trapeziste in una reale Pyongyang, mentre sembrano lontane le vere minacce di guerra e bombardamenti nucleari tra i due stati mai pacificati.
Anche nella ricca penisola di Hong Kong, comunque, non mancano tensioni e rivalità con l'imponente produzione della Cina continentale, che tenta una colonizzazione dei generi e dell'industria e sembra esserci riuscita. Ma il mercato avvia dialoghi inaspettati, censura permettendo. Yau è legato alla sua città-stato, della quale ripercorre parte della storia novecentesca proprio attraverso le sorti della scuola-palestra di Ip (interpretato da Anthony Wong), soffermandosi a lungo sul personaggio del maestro e sulle sue riflessioni morali, le sue indicazioni di vita, quando al posto dei pugni e dei calci detta rigorose e umanissime regole di vita. E' un senso di nostalgia che occupa molte delle scene, delle musiche e dell'ambientazione del film, frammenti del passato di Hong Kong - a partire dal 1949 fino agli anni '60 - ove si osservano la situazione non felice degli immigrati, dei lavoratori, con le rivolte sindacali e “occupazione” britannica, la corruzione della polizia e il controllo dei clan mafiosi, argomenti che trasmettono curiosità e attenzione all'ambito locale, più che rimpianto. “Il kung fu è osservare e imitare - precisa Yau, capelli lunghi e neri, maglietta dedicata ai Beatles - una caratteristica anche degli eroi che lo praticano. Ma questi sono anche uomini e io volevo proprio raccontare Ip come un uomo, con le sue qualità confuciane: saggezza, compassione e coraggio. Una persona di alto valore, moralmente ammirevole. Ai giovani cinesi questi temi piacciono e superano facilmente il problema della censura governativa. Ma oggi, se vogliono vedere un film occidentale, ci riescono comunque grazie alla pirateria”.
Molti dei titoli cinesi (e di Taiwan) sono, come sempre, dedicati alla storia e alla sua spettacolarizzazione, con l'introduzione, ampia e avanzata, di effetti speciali, insieme alla struttura tipica del kolossal con masse e scontri d'ogni genere: si va dalla commistione Shakespeare-Kurosawa di The last supper di Lu Chan all'ipercinetico The Guillotines di Andrew Lau, con sicari, ribelli e minoranze etniche impegnate in violente battaglie, senza tregua e pietà, contro il potere centrale. Una dinamica che recupera il tema, meta-politico, della buona civiltà contadina contro la cattiva casta dei politici imperiali, mentre sullo sfondo predica e combatte una figura messianica, quella di Lupo, pronto al sacrificio pur di portare la pace tra i cinesi.
A lato dei prodotti classici, ci sono anche commedie giovanilistiche, melodrammi romantici, tentativi di musical giapponese, immancabili thriller polizieschi e horror puri di cui si scopre che anche i registi filippini, a fianco dei colleghi più rinomati, sono maestri.