Se "non si può essere seri a 17 anni", come scriveva più di un secolo fa il maudit Rimbaud, figuriamoci a 16, quando il buonsenso è controsenso e il giudizio deve mettere ancora i denti. Eppure di Miley Cyrus tutto si può dire tranne che non faccia sul serio.

Per questa ragazzina sempre sorridente (alcuni l'hanno ribattezzata "Smiley"), dai capelli di bronzo e la faccia pulita, nata 16 anni fa nella mitica Nashville, città della musica, di Johnny Cash e della Grand Ole Opry, il rispetto è una questione di numeri: 20 milioni di dollari fatturati in un anno, più di 8 milioni di dischi venduti, una serie televisiva dal successo planetario, un'autobiografia e un film in arrivo. Un curriculum che farebbe rosicare l'Avril Lavigne degli esordi e la Britney Spears prima del disfacimento. Il successo non sarà prova di maturità, ma cifra della grandezza sì.

Business is bigness, direbbero gli americani, e ora la reginetta della tv via cavo, dei concerti fiume e dalle folle oceaniche, assisa su un trono dorato grazie a frotte di teenager adoranti, è pronta a sbarcare in Italia dove non era mai stata ("Sono ansiosa di visitare il Vaticano", aveva ammesso con candore, e pazienza se si tratta di un altro Stato!) e dove l'onda lunga della celebrità - nonostante la strombazzante campagna di Disney Channel - non è ancora arrivata.

Lei non ha fretta. Coccolata dal papà manager - l'attore e cantante country Billy Ray Cyrus, quello di Achy Breaky Heart e della sitcom pedagogica Doc - e a suo agio tra abiti colorati e orpelli rococò, sfoggia la tipica sicurezza della predestinata, di chi il successo l'ha ricevuto col nome. E il suo - anagrafe alla mano - è davvero ricco di suggestioni: "Destiny Hope" Cyrus. Miley è arrivato dopo, a destino compiuto e speranze avverate. La bambina del Tennessee che sognava lustrini e palcoscenico è diventata in un lampo l'icona di una generazione cresciuta a reality e utopie televisive. Stella una e trina: attrice, popstar e lolita buona.