Sette anni di silenzio (da I figli degli uomini, 2006) e poi un colpo - il colpo! - che Alfonso Cuarón batte con il martello leggero della tecnica.
Gravity bussa alle porte di Hollywood, è il film dello sdoganamento. Passare, poi incassare: l'Oscar? Siamo di fronte a uno degli sci-fi più audaci degli ultimi anni. Non si ricorda un'esperienza di visione così immersiva, capace di abbattere la barriera dello schermo e di trascinarci "fisicamente" nell'azione.
Sandra Bullock e George Clooney, astronauti in balìa del vuoto cosmico. Una pioggia di detriti ha distrutto la stazione spaziale ed è naufragio anche per noi. Fluttuiamo via, verso il nulla siderale, cercando una corda, un pezzo di lamiera, qualunque cosa che ci tenga aggrappati alla terra.
Visione in apnea, amplificata dall'assordante rintocco dei respiri. Visione in soggettiva, faccia a faccia con le fauci dell'universo, nere e pronte ad inghiottirci. Visione orfana, senza le coordinate dello spazio e del tempo.
Gravity impone allo spettatore di slacciare le cinture e abbandonare l'asse cartesiano del proprio dominio prospettico. Lo sballotta da una parte all'altra, vertigine di un movimento che non è più dettato dalle traiettorie dell'occhio, ma impresso da forze esterne e ineffabili.
Cuarón realizza un impressionante tour-de-force stilistico e lo firma con lacrime e sangue (le goccioline che vanno a spiaccicarsi sull'obiettivo). Trova fertile collaborazione nella fotografia di Emmanuel Lubezki, capace di dare un nitore mai visto a immagini in stereoscopia, di sezionare con la pura forza della luce un'odissea in presa diretta (solo 156 le inquadrature utilizzate per il film).
Il tempo si dilata, lo spazio paradossalmente si comprime.
Poco kubrickiano Gravity lo è nella storia: nessuna metafisica, ma una narrazione più classica, un apologo sulla rinascita (innumerevoli i rimandi visivi al tema del parto) con la Bullock in stato di grazia.
Quasi un lusso per un film che non avrebbe bisogno nemmeno di personaggi. Questo cinema è esperienza, non racconto.