C'è James Franco che si dirige (Sal), Jonathan Demme che ci regala un identikit sui generis della designer inglese Carolyn Parker (I'm Carolyn Parker: the Good, the Mad and the Beautiful), il ritorno di Pietro Marcello nel documentario Il silenzio di Pelesjan e il nuovo misterioso Tsukamoto (Kotoko). Senza dimenticare Pippo Delbono e l'apertura affidata al Cut di Amir Naderi: è Orizzonte 2001, che conferma la propria vocazione al mix di linguaggi e di formati del cinema proponendo un cartellone ricco, vario e, sulla carta di grande spessore. Corti, medi e lungometraggi, per una selezione che spazia dal film-saggio all'animazione, dalla meditazione dolorosa alla commedia, dalle commistioni tra gesto cinematografico e arti visive. Vale la pena di provare a tracciare alcuni percorsi ipotetici: la convergenza tra arti visive e cinema nei nuovi lavori di Mark Lewis (Black Mirror at the National Gallery), Yuri Ancarani (Piattaforma luna), Rirkrit Tiravanija (Lung Neaw Visits His Neighbours), Devin Horan (Late and Deep), Nicolas Provost (L'Envahisseur), Flatform (Movimenti di un tempo impossibile) o Eija-Liisa Ahtila (The Annunciation); il potere dell'inquadratura e la sovversione del montaggio sono gli strumenti espressivi forti che contraddistinguono i film di Yves Caumon (L'Oiseau), Amir Naderi (Cut), Shinya Tsukamoto (Kotoko, Kim Kyungmook (Jultak dongshi), Gurvinder Singh (Anhey ghorhey da daan), Teresa Villaverde (Cisne), Amiel Courtin-Wilson (Hail); e nuove manifestazioni del rapporto con il reale trovano forme diverse in Tusi Tamasese (O le tulafale), Clarissa Campolina (Swirl) e Helvécio Marins Jr. (Girimunho), Mattias Gustafsson (Start), José Luis Torres Leiva (Verano), Mati Diop (Snow Canon): tutti, partono dagli elementi di fiction che permeano il mondo che ci circonda; mentre Ross McElwee (Photographic Memory), Pippo Delbono (Amore 3D), Jonathan Demme e Andrew Kötting (Louyrie - This Our Still Life) mettono in scena la dimensione intima del diario (proprio o altrui); la scommessa di fare cinema con i documenti, le figure o le tracce della storia è il punto di partenza di progetti come quelli di Yervant Gianikian e Angela Ricci - Lucchi (Notes sur nos voyages en Russie 1989-1990), James Franco, Heinz Emigholz (Parabeton - Pier Luigi Nervi and Roman Concrete), Oscar Perez e Marc Ribot (Hollywood Talkies), Felice D'Agostino e Arturo Lavorato (In attesa dell'avvento), Norbert Pfaffenbichler (Conference), Yuri Leiderman/Andrey Silvestrov (Birmingham Ornament) e Müller/Girardet (Meteor); lavori come quelli di Xu Haofeng (Wokou de zongji, arti marziali), Wim Vandekeybus (Monkey Sandwich, backstage immaginario di una messa in scena teatrale) Marina de Van (Le petit poucet, fiaba dell'orrore), Charles Yi Yong Lim (All the Lines Flow, thriller metafisico) o di Mirai Mizue (Modern N° 2), Isamu Hirabayashi e Yves Netzhammer (663114 e Dialogial Abstraction, animazione e 3 D non-allineati), incarnazioni contemporanee del cinema di genere; la reinvenzione del rapporto tra cinema e racconto letterario (comico o drammatico), al di là delle forme convenzionali, è al centro delle ricerche di Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt (Palàcios de pena), Mauro Andrizzi (Accidentes gloriosos), Joseph Dabernig (Hypercrisis), Edgardo Cozarinsky (Nocturnos), Wattanapume Laisuwanchai (Passing Through the Night) e Amit Dutta (Sonchidi); il cinema documentario pensato come visione di universi interiori e territori nascosti, oppure come modo di rendere “visibile” il mondo, è la chiave giusta per apprezzare i lavori di Romuald Karmakar (Die Herde des Herrn), Yolande Zauberman (Would You Have Sex with an Arab), Simon Pummell (Shock Head Soul), Michael Glawogger (Whores' Glory, Ben Russell (River Rites) e Ben Rivers (Two Years at the Sea).