“La sfida principale che ho dovuto affrontare come attore è stato l’impegno a colmare la differenza tra la mia vita quotidiana e quella che il mio personaggio rappresenta  nel film. Ho letto molto : dai racconti scritti dai Sonderkommando e pubblicati negli anni ‘80 ai libri di Primo Levi. E ha contato molto anche la mia storia personale: a 12 anni mio nonno mi ha raccontato la tragica fine dei suoi genitori e di altri membri della sua famiglia nei campi nazisti”. Così comincia la conferenza stampa del film Il figlio di Saul, in uscita il 21 gennaio prossimo per Teodora. A parlare è Géza Röhrig, unico presente e protagonista della pellicola nel ruolo di Saul Auslander, con una prestazione robusta e convincente per un’opera in lizza per l’Oscar al miglior film straniero.

Saul fa parte dei  Sonderkommando di Auschwitz, i gruppi di ebrei costretti dai nazisti ad assisterli nello sterminio degli altri prigionieri. Mentre lavora in uno dei forni crematori, scopre il cadavere di un ragazzo in cui crede di riconoscere suo figlio… Proprio dal genocidio parte la riflessione di Rohrig: “Il genocidio è un trauma intergenerazionale. Personalmente sono stato colpito da eventi che non ho vissuto, e ho capito che di  padre in figlio è più importante parlarsi che proteggersi.  Il primo libro che ho scritto è stato pubblicato in Germania e in Austria, ma in realtà ho capito che non ero ancora del tutto pronto per elaborare certi argomenti. Ammiro Nemes perché ha saputo aspettare e fare il film al momento giusto”. Alla domanda sulla identità di Saul, risponde: “Saul non è un eroe, è un uomo normale che prende una decisione straordinaria,  fa una scelta più alta che si lega ad un finale non consolatorio. Alla fine l’unico omaggio che si può rendere ad un morto è seppellirlo. Devo aggiungere che, più  del nome Saul, del protagonista è importante il cognome, Auslander: significa “straniero”, “extraterrestre”, con immediati rimandi alla sua situazione”.

Il film ha finora vinto molti premi, tra i quali il Gran Premio della Giuria a Cannes 2025 e il Golden Globe 2016.  A proposito della scelta narrativa, Röhrig precisa: “Ricordo che il regista ha detto che non era possibile far vedere l’Olocausto in modo frontale, si sarebbe rischiata la pornografia. Invece la dialettica suono/immagine ha permesso di essere più veri. Proprio la scelta dello schermo quadrato va nella direzione di non allargare lo sguardo sull’orrore. Nella prima sceneggiatura c’erano molte informazioni sul personaggio Saul prima di arrivare al campo. In quella finale si è pensato invece che era meglio non dire niente e creare un impatto più immediato.”  Nato a Budapest nel 1967, poi andato a Gerusalemme negli anni Novanta, da 15 anni residente a New York, Röhrig ricorda di aver visitato per la prima volta Auschwitz a 19 anni. “Lì –dice- ho perso la fiducia nel progresso. Credevo che la barbarie appartenesse al passato, ma l’uomo di oggi non è migliore di quello di cento anni fa”.