Firenze si affaccia sul Baltico. La geografia è cinematografica, la prospettiva quella del Festival dei Popoli che alla produzione di Lettonia, Lituania ed Estonia, dedica un'ampia panoramica, la "Diagonale Baltica". Partendo dalla scuola del documentario poetico di Riga, la kermesse fiorentina lascia affiorare le linee invisibili che uniscono tradizione - l'esperienza dei cinegiornali, modelli di essenzialità narrativa e semplicità formale -  e innovazione - dalle germinali esperienze di Brauns e Verba ai capolavori moderni di Diana e Kornelijus Matuzevicius -  per seguirne le fughe in avanti e le ricadute fuori confine: la ciclicità del tempo nell'opera dei registi lituani, l'insolito e il quotidiano in quella dei cineasti estoni.
"Connessioni" che rivelano – ben oltre la prossimità, la Storia condivisa e i temi trattati - come sia la ricerca di una "poetica del documentario" il vero valore di scambio.
La Lettonia, ovvero Riga, farà da battistrada di questa esperienza. White Bells di Ivars Kraulitis è il primo film lettone (1961). Con il regista lavorano altri due grandi nomi del movimento, Uldis Braun (alla macchina da presa) e Herz Frank (alla sceneggiatura). E' la storia di un doppio inseguimento: quello di una bambina nel suo girovagare curioso tra la folla in movimento; e quello di una città in fermento, Riga, vibrante dei ritmi della nuova industrializzazione, dei cantieri aperti, degli scenari pronti a mutare. In nuce gli elementi che caratterizzeranno le produzioni successive: l'eloquenza del bianco e nero, l'impiego narrativo del suono, la coesistenza dei contrari che fa esplodere di continuo ordine e disordine, ritmo e sospensione, momento ed eternità. Un naturalismo che si appoggia alla cronaca per giungere all'universalità, "come se nelle cose narrate potesse convivere il tempo del presente e quello dell'infinito, come se il presente risuonasse sempre di passato e futuro" (Grazia Paganelli).  C'è già da parte di Kraulitis, e più tardi in Freimanis (Kuldiga's Frescos, 1966 e The Catch, 1969), Braun (235.000.000, 1967) e Verba (Thoughts of One-Hundred Years Old, 1969), la coscienza delle potenzialità del mezzo, la fiducia che lavorando sulla forma la realtà "si apra" consegnandosi all'immagine.
Nei suoi momenti più alti la scuola poetica di Riga ha realizzato la perfetta convergenza di teoria e prassi. Cinema concreto, preciso nel racconto e ricco di annotazioni dettagliate. E forma allusiva, capace di cogliere dentro e oltre il quadro barlumi di verità. Una tradizione che arriva fino agli ultimi epigoni di questa stagione, Diana e Kornelijus Matuzevicius, dove ancora una volta il presente è la chiave di volta per la memoria. Illusion (1993) e Behind the Threshole (1995) portano allo scoperto quel che era implicito nei documentari dei predecessori, la centralità della Storia, la ferita di un popolo che ha subito l'occupazione, la violenza e la deportazione.
E il tema dell'eterno ritorno si riaffaccia come un fantasma nella produzione della vicina Lituania, nella "trilogia delle stagioni" di Valdas Navasaitis e in quel capolavoro di osservazione che è In Memory of a Day Gone By di Sarunas Bartas, cronaca di una giornata che sembra non finire mai, colta attraverso gesti e volti di un tempo dimenticato, reiterato, sospeso.
Quello stesso che ritorna ossessivo nel documentario estone di Herz Frank e Artunas Matelis, di Soot e Soosaar, cantori del quotidiano e dell'insolito, autori ancora una volta a cavallo tra passato e futuro, realismo e finzione.