Bill Murray, chi l'avrebbe mai detto che quell'istrione, quell'attore chiacchierone che dava il meglio come commediante, potesse risorgere, grazie a Sofia Coppola, come silenzioso totem o comprimario (se non cammeo) determinante. Anderson l'ha usato come portafortuna e stacco nel suo Il treno per il Darjeeling, businessman in viaggio da un capitolo all'altro della storia, in Get Smart era un buffo capo dei servizi segreti, personaggio secondario solo per numero di battute. Il festival di San Sebastian ce lo ripropone nella doppia veste, in attesa di Ghostbusters III, quella di divertente spalla e di anonimo comprimario. I film sono entrambi originali e belli: Get Low (in concorso) lo vede direttore di un'agenzia funebre a rischio di fallimento che deve organizzare il funerale, da vivo (la storia è vera), di un eremita che ha il volto di Robert Duvall. Un duetto davvero gustoso su diversi registri per la regia dell'esordiente Aaron Schneider, che si è anche concesso il lusso di una bellissima partecipazione di Sissy Spacek. Truccato e mellifluo, Murray si scatena in un ruolo solo apparentemente comico, ma profondo e persino dolce. Sa raccontare con misura un borghese piccolo piccolo alle prese con un uomo che si è isolato per 40 anni, contrappone le sue miserie alle nobiltà dell'altro, scoprendo che forse i loro ruoli sono capovolti. Divertente vederlo assecondare quest'uomo bizzarro, fare di tutto per non perdere il suo affare, organizzare una lotteria “letale” che neanche immaginava. La macchina da presa, esperta nonostante la giovane età (ma il regista si è fatto le ossa con videoclip e pubblicità), sa accarezzare, con i giusti tempi, questi personaggi e il paesaggio di un western funerario che ha qualcosa di Ed Harris, qualcos'altro di Tommy Lee Jones e alcune idee non lontane dai Cohen. Di questi coglie lo spirito ironico e nostalgico, l'insostenibile pesantezza dell'essere coerenti con i valori di un passato che non tornerà ma che ha lasciato molto nell'immaginario, individuale e collettivo. Racconta un uomo che ha amato una volta sola, ma di quell'amor perduto ha riempito la sua anima, svuotando la propria vita. E in mezzo a tutto questo un malin-comico giullare, Bill Murray, che gli scava la fossa imparando a conoscerlo e apprezzarlo. In The limits of control (Zabaltegi Perlas) di Jim Jarmusch, invece, il vecchio Bill la fossa se la ritrova sotto i piedi prima di accorgersene. Nel buffo e quasi alienante ultimo film del bizzarro cineasta (Murray era già piaciuto, e molto, nel suo Broken Flowers) si ritrova a essere l'Americano, un anonimo potente che vive chiuso in una stanza insonorizzata: dovrebbe essere la sua fortezza, potrebbe essere la sua tomba. La storia che racconta Jarmusch è il Lost in translation tra Madrid e Siviglia di Isaach de Bankolè, qui un silenzioso, elegante, serissimo (tranne quando vede il flamenco e la splendida Paz de la Huerta nuda) sicario appassionato d'arte, ma forse dovremmo dire un giustiziere che si ritrova al centro di un complotto di persone stranissime che intervengono nella sua vita con la stessa domanda (“non parli spagnolo, vero?”) mentre lui sorseggia i suoi due espressi in due tazze separate. Pagamenti, diamanti e ordini (cifrati con codici impossibili che lui manda a memoria in pochi secondi per poi mangiarseli diluiti col caffè!) passano per scatole di fiammiferi “Boxeur” e perle di saggezza: Tilda Swinton, John Hurt, Gael Garcia Bernal, tutti irriconoscibili, sono i più affascinanti tra questi ritratti fugaci. Un film molto particolare, in cui c'è tutto l'estetismo di Jarmusch, il gusto del particolare che fagocita uno sguardo d'insieme, l'amore per i giochi di specchi narrativi e visivi. Una cinematografia, la sua, che ha la sua forza in piccole grandi scene piuttosto che nelle sue opere complete, in caratterizzazioni geniali più che in affreschi. San Sebastian l'ha, inevitabilmente, applaudito e fischiato. Quando i maestri giocano con il (loro) cinema, disorientano, è la loro forza e la loro debolezza.