Gnade (Mercy), di Matthias Glasner è il terzo e ultimo contributo tedesco in concorso al 62. Festival di Berlino. Una cosa si può dire con certezza: il cinema tedesco fatto da una generazione di cineasti appena quarantenni è in ottima salute. Forse, non è mai stato così vivo. Gnade è un dramma ‘polare' ambientato in un villaggio sul mare norvegese, in faccia all'Artico. Gli ottimi Jürgen Vogel (Neils) e Birgit Minichmayr (Maria) sono una giovane coppia appena trasferita sul tetto del mondo per il posto di lavoro nella lucrativa industria petrolifera offerto a Neils. Maria si occupa di malati terminali in un ospedale statale specializzato. La lontananza da casa si insinua gelida tra i due. Come a volte accade alle coppie impreparate al nuovo, Neils e Maria si allontanano. Una notte Maria ha un incidente sulla via di casa. Un attimo a osservare la magica notte polare basta alla tragedia. Un tonfo. Crede di aver toccato qualcosa. Un animale? Solo il giorno dopo i notiziari raccontano di una ragazzina di sedici anni uccisa da una macchina. In tre stili molto diversi tra loro i cineasti tedeschi quest'anno in concorso hanno dato prova di una maestria speciale (scientifica, ma così cinematografica), nella descrizione di situazioni inusuali di conflitto. Colpa, compassione, pietà. Barbara, Was bleibt e Gnade, fanno onore al cinema, non solo tedesco, perché sono coraggiosi. “Voglio andare più in là di quanto le norme di regola concedano”, afferma il regista. Il polso sulla sensibilità di una generazione sembrano proprio averlo loro.
Al penultimo giorno di Berlinale i film europei convincono la critica e piacciono al pubblico. Pur diversissimi, oltre al tedesco Gnade - Mercy, l'ungherese Csak a szél (Just the Wind) di Bence Fliegauf affronta un tema attualissimo e scottante in Ungheria: il clima da Pogrom che da tempo si condensa intorno ai ROM. La notizia si diffonde con la rapidità del vento: in un villaggio ungherese di confine un'intera famiglia di ROM è stata barbaramente sterminata. Dei colpevoli, ovviamente, non c'è traccia. Fliegauf dopo la presentazione ci ha tenuto a sottolineare con forza quanto il tema sia importonte per l'Ungheria, ma anche per il futuro della Democrazia in Europa. Nessuno dei giornalisti in sala è in disaccordo con questa tesi. Ovviamente. Il rischio è reale. E la situazione attuale ungherese fa soffrire ogni europeo. “Credo che l'Ungheria, anche quella del dopo cambio di sistema (non parla di Governo il regista, nda), dovrebbe essere fiera di un Paese che permette di girare un film che affronti un tabù sociale”. Il tono dell'intervento è amaro. La lettura di un comunicato del ministero della Giustizia Ungherese arriva a ciel sereno, guasta il clima e trova impreparati tutti, organizzatori e giornalisti. Non si può che augurare fortuna alla pellicola di Fliegauf. Di tutto cuore. Altro secolo, altre sofferenze, non molto lontano dall'Ungheria nell'altro film presentato sempre in concorso, il danese EN KONGELIG AFFÆRE (A Royal Affair), di Nikolaj Arcel. Mads Mikkelsen veste i panni di Johann Friedrich Struensee, medico dei poveri nella colonia danese in Germania di Altona (Amburgo) del 1768. Il Re (squilibrato) di Danimarca Christian VII si incapriccia di lui e lo nomina medico personale suo e della regina. La storia è vera e Struensee è molto più di un medico di valore. Insieme alla regina Caroline Mathilde, di cui diviene amante, assume sempre più le leve del comando importando in Danimarca le idee di Voltaire e dei Lumi. A Nikolaj Arcel riesce un mix interessante e intenso di dramma storico-politico, d'amore e tragedia. L'eterna parabola del conflitto tra progresso e reazione.