In ricordo di Ennio Morricone, pubblichiamo la scheda critica che Ermanno Comuzio scrisse su di lui nell'opera Musicisti per lo schermo. Dizionario ragionato sui compositori cinematografici (edizioni Ente dello Spettacolo, Roma 2004).

 

Nato a Roma il 10 novembre 1928, Ennio Morricone studia musica al Conservatorio di Santa Cecilia della capitale (con Goffredo Petrassi tra i suoi maestri), diplomandosi in tromba, composizione, strumentazione, direzione di banda e musica corale. Autore di canzoni e arrangiatore (è stato fra l’altro l’arrangiatore di tutti i motivi di successo di Gianni Morandi), è stato a capo di un’orchestra di musica leggera. Compone musiche per strumenti solisti, per formazioni da camera, per orchestra (Sonate, Concerti, Invenzioni, Studi, Variazioni), per voci, per cori, nonché per balletti e lavori teatrali quali Requiem per un destino, Gestazione, La pappa reale, Il lieto fine, Gente che va gente che viene, l’azione coreografica Requiem per un destino e altro, più inni, sigle, materiali vari. Partecipa all’attività di “Nuova Consonanza”, gruppo sperimentale di strumentisti dediti all’improvvisazione.

Pur continuando con esiti ragguardevoli a comporre per le sale da concerto e per il teatro, Morricone è molto attivo per telefilm e serie televisive, ma soprattutto per il cinema, campo nel quale è diventato uno dei prolifici e più popolari compositori del mondo. Vanta record assoluti nella vendita di dischi delle sue musiche per film (nell’ottobre 1971 ha ottenuto il suo primo Disco d’Oro per un milione di dischi venduti). Accostatosi al settore come orchestratore e direttore d’orchestra in sede di registrazione delle colonne sonore, nonché come autore di canzoni, a partire dal 1961 (Il federale, di L. Salce) compone partiture in proprio.

Dopo essersi provato nel genere “western all’italiana” con Duello nel Texas (1964, di R. Blasco, firmandosi in questa e simili operazioni con gli pseudonimi Leo Nichols o Dan Savio), Morricone acquista grande notorietà con la “trilogia del dollaro” di Sergio Leone: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966).

C'era una volta il West

Qui il compositore reinventa i suoni del West in partiture “infuocate” con ricorso a vari e inediti colori orchestrali e alla combinazione di ritmi e di effetti sonori, tra cui famosi il fischio, le chitarre elettriche, la campane, la frusta, l’armonica a bocca, il carillon, l’organo, le voci (vocalizzi, sillabazioni), eccetera. Trova così modo di imporsi uno stile riconoscibilissimo, imitato da tanti e diventato “maniera”, che crea in questo tipo di film atmosfere di un particolare iper-realismo vicinissimo al surrealismo.

Intanto però – a parte commenti a western di altri autori italiani – Morricone compone anche partiture di altissimo livello per film di genere drammatico, dimostrando di avere al suo arco diverse frecce. Particolarmente importanti per la loro appartenenza a soluzioni severe, degne della musica contemporanea “colta”, i commenti a Prima della rivoluzione (1964, di B. Bertolucci: incursioni nel puntillinismo e moderno trattamento di spunti melodici); I pugni in tasca (1965, di M. Bellocchio: rottura della linea melodica in un seguito di intervalli di tipo “informale” e uso inquietante delle voci); Uccellacci e uccellini (1966, di P.P. Pasolini: il regista collabora all’assemblaggio di materiali diversi; come accadrà poi per altri suoi film), La battaglia di Algeri (1966, di G. Pontecorvo: domina un ostinato ritmico, martellato, per la presenza ossessiva dei militari, cui si contrappone un’intensa melodia per lo spirito di libertà degli algerini); e soprattutto Un uomo a metà (1966, di V. De Seta: fasci di suoni incorporei tenuti lungamente e note staccate di archi e di percussioni).

Morricone alterna le musiche meramente “funzionali” con quelle di indubbia originalità, ricercando – specialmente per i risultati di registi giovani e anticonformisti, cui è spesso vicino – sottili atmosfere armoniche e timbriche proprie di un musicista d’avanguardia propenso alla distillazione rigorosa dei suoni e che intende portare nel suo lavoro le proprietà del musicista “da concerto”.

Tra le fatiche del ’68 e dintorni – periodo denso di risultati eccellenti – si affermano soprattutto quelle per L’harem (1968, di M. Ferreri: largo spazio è dato alle improvvisazioni del sassofonista “Gato” Barbieri e del chitarrista Bruno Battisti d’Amato), La Cina è vicina (1967, di M. Bellocchio: dominato da canzoncine beffarde e marcette grottesche); Il giardino delle delizie (1967, di S. Agosti: filamenti sonori di tipo astratto drammatizzati da elementi dinamici); Escalation (1968, di R. Faenza: pastiche di stili diversi in una contaminazione spiritosa); Galileo (1968, di L. Cavani: si va dal gregoriano visto come contrappunto tragico ai fatti narrati, alle fioriture barocche, al puntillinismo); Teorema (1968, di P. P. Pasolini: ottimo impasto di fiati in contrapposizione a inquietanti “pedali” sonori, sublimati per la presenza taumaturgica del misterioso Ospite dall’Introitus della mozartiana Messa di Requiem); Partner (1968, di B. Bertolucci: scatenato gusto per la citazione ironica della sarcastica esaltazione dei miti del nostro tempo); Un tranquillo posto di campagna (1968, di E. Petri: film in cui Morricone si avvale, come in altre imprese, del complesso “Nuova Consonanza” per ottenere atmosfere indefinite, sfuggenti); Metti una sera a cena (1969, di G. Patroni Griffi: voce femminile e interventi sottili, raffinati); Queimada (1969, di G. Pontecorvo: suggestivi innesti di soluzioni diverse – cori liturgici, inni di riscatto, Bach – su materiali del folklore caraibico); I cannibali (1969, di L. Cavani: interventi violentemente iperbolici); Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970, di E. Petri: pagine scarse e desolate sottolineanti la reificazione dell’uomo); Sacco e Vanzetti (1970, di G. Montaldo: colonna sonora dominata dalla accorata “Ballata di Sacco e Vanzetti”, cantata da Joan Baez); La classe operaia va in paradiso (1971, di E. Petri: iterazione di un motivo “nostalgico” e suoni indefiniti, “disturbanti”).

Sacco e Vanzetti

D’ora in avanti le diverse “maniere” di Morricone (la modernità del ricorso a tutti i moduli, l’adesione sorvegliata di tipo aristocratico, il barocchismo che sfocia nello sberleffo sconsacratore, insomma nella parodia: il massimo si trova forse nel post-western Il mio nome è Nessuno, 1973, di S. Leone e T. Valerii, in cui le soluzioni grottesche sono pantografate e culminano in La Cavalcata delle Valchirie eseguita da una trombetta da bambini), le “maniere” di Morricone, si diceva, si mescolano inestricabilmente fra loro, magari ripetendo soluzioni tipiche, come quella della distorsione dei motivi dell’infanzia, (in Grazie zia, 1967; Cuore di mamma, 1968, entrambi di Samperi; Vergogna, schifosi!…, 1968, di M. Severino; e in alcuni “gialli all’italiana” di Dario Argento, quelli in cui la radice di determinati misfatti è da ricercarsi psicanaliticamente in traumi infantili).

Comunque Morricone passa con disinvoltura da uno stile all’altro, facendosi interprete di volta in volta del senso interiore di film di diversissimo genere, talvolta ripetendosi fatalmente. Spiccano comunque tra i suoi risultati successivi: Mussolini, ultimo atto (1973, di C. Lizzani: riferimenti a inni di diverse culture e una stupenda trenodia funebre); Allonsanfan (1974, di P. e V. Taviani: una delle fatiche migliori di questo musicista, sia per la chiave propriamente melodrammatica che per l’uso drammaturgico di canzoni popolari – le dolcezze “borghesi “ del protagonista – e di ruvidissimi “saltarelli” esprimenti l’utopia rivoluzionaria); Novecento (1976, di B. Bertolucci: commento referenziale e pletorico); Il deserto dei Tartari (1976, di V. Zurlini: anche qui un contrasto fra le suggestioni “asburgiche” della vicenda e l’attesa minacciosa di nemici invisibili dalle atmosfere orientaleggianti); La luna (1979, di B. Bertolucci: inserti operistici consustanziali alla vicenda riguardante una cantante); Il prato (1979, di P. e V. Taviani: tema intensamente lirico affidato al flauto solo e altri interventi di struggente amarezza); Ogro (1979, di G. Pontecorvo: un motivo lento e grave si oppone a un violento “martellato”); Uomini e no (1980, di V. Orsini: ancora una struttura bi-tematica); The Thing (La cosa, 1982, di J. Carpenter: timbri oscuri, atmosfere ossessive, percussioni).

Tipico di molti film il ricorso a pagine preesistenti (musiche classiche, canzoni) distorte in acrobazie decostruzionistiche, come in Scusi facciamo l’amore? (1968, di V. Caprioli), Che c’entriamo noi con la rivoluzione? (1972, di S. Corbucci), Fiorina la vacca (1972, di V. De Sisti), D’amore si muore (1972, di C. Carunchio), Sesso in confessionale (1974, di V. De Sisti), Divina creatura (1975, di G. Patroni Griffi), Attenti al buffone (1976, di A. Bevilacqua), L’eredità Ferramonti (1976, di M. Bolognini), L’umanoide (1979, di A. Lado/G. Lewis), La storia vera della signora delle camelie (1981, di M. Bolognini). Si scatena per contro con suoni d’effetto “apocalittico” nella serie delle pellicole “demoniache” (L’anticristo, 1974, di A. De Martino/H. Martin; Exorcist II: The Eretic – L’esorcista II: l’eretico, 1977 di J. Boorman; Holocaust 2000, 1977 di A. De Martino; e altri).

Gli intoccabili

Successivamente Morricone rarefà i suoi contributi, anche se restano sempre moltissimi, alternando ai risultati di mestiere quelli espressivamente importanti. Tra questi ultimi: The Mission (Mission, 1986, di R. Joffé: tema portante classicheggiante combinato con una melodia complementare ispirata alla semplicità dei ritmi indigeni); The Untouchables (Gli intoccabili, 1987, di B. De Palma: fortissime affermazioni ritmiche e senso dell’epopea metropolitana, con schegge della musica di “frontiera”); Frantic (idem, 1988, di R. Polanski: mescolanza dei tipici ricorsi alla suspense con musica d’ambiente – Parigi – e ritmi jazzistici); Nuovo Cinema Paradiso (1989, di G. Tornatore: abile ricorso alle suggestioni del cinema come mito mescolate alla musica ambientale); Dimenticare Palermo (1990, di F. Rosi: particolarmente funzionale il motivo insinuante dei gelsomini per il fascino “molle” della Sicilia); ¡Àtame! (Légami!, 1990, di P. Almodóvar: musica soft per un amore disperato); Stanno tutti bene (1990, di G. Tornatore: sinfoniette leggiadre percorse da accenni drammatici e citazioni operistiche); Hamlet (Amleto, 1990, di F. Zeffirelli: moderna interpretazione di melodie antiche e sapori rarefatti); La scorta (1993, di R. Tognazzi: buoni impasti di ottoni e un bel movimento largo, ma musica troppo presente); In the Line of Fire (Nel centro del mirino, 1993, di W. Petersen: sfrutta il jazz eseguito al piano dal protagonista Clint Eastwood); Jona che visse nella balena (1993, di R. Faenza: parchi richiami a musica etnica per l’ebraicità del protagonista, sommersi da ritmi marziali e elegie negli archi); Sostiene Pererira (1995, di R. Faenza: ritmi irregolari); La sindrome di Stendhal (1996, di D. Argento: utilizza la struttura della passacaglia); La lupa (1996, di G. Lavia: percussioni barbariche per le passioni infuocate, canti rituali, saltarelli, ampie frasi melodiche); La leggenda del pianista sull’oceano (1998, di G. Tornatore: scommessa difficile, quella di inventare una musica magica, incantatrice, risolta con fuochi d’artificio di virtuosismi pianistici che saccheggiano rag e jazz); Canone inverso – Making Love (1999, di R. Tognazzi: atmosfere di un romanticismo espanso e citazioni abbondanti); Malena (2000, di G. Tornatore: tema “morbido” per l’attrazione sensuale, con un po’ di “presepe siciliano”); Aida degli alberi (2001, lungometraggio animato di G. Manuli: musica ricca, colorita, vivace, con cori, temi guerreschi, episodi buffi); Il diario di Matilde Manzoni (2001, di L. Capolicchio); Ripley’s Game (Il gioco di Ripley, 2002, di L. Cavani: classici mescolati a musica d’azione).

Morricone lavora insomma per pellicole d’ogni genere e di ogni consistenza, occupandosi da molti anni di tutte le incombenze relative alle colonne sonore dei suoi film: composizione, orchestrazione, direzione d’orchestra. In alcuni casi cura la supervisione di fatiche altrui. Dirige spesso musiche dei suoi film in sede di concerto. Tra i numerosi premi ricevuti, cinque Nastri d’argento: per Un pugno di dollari (1965), per Metti una sera a cena (1970), per Sacco e Vanzetti (1974), per La leggenda del pianista sull’oceano (1999) e per Malena (2000). Tra le più importanti pubblicazioni dedicate al nostro musicista si ricorda che in Olanda vede la luce nel 1990 una “The Ennio Morricone Musicography” (MSV, Amsterdam); Sergio Miceli è autore del libro “Morricone, la musica, il cinema” (Ricordi/Mucchi, Milano 1994); e lo stesso Morricone, insieme a Miceli, firma il manuale “Comporre per il cinema” (Biblioteca di Bianco e Nero, Roma 2001).

Ennio Morriconi con la statuetta dell'Oscar