“Non ho la tempra del divo”, diceva Luigi Proietti da tutti chiamato Gigi. E in linea con queste parole Edoardo Leo ha scelto di raccontare il grande Gigi “con la giusta distanza senza santificarlo come gli aveva promesso” nel doc: Luigi Proietti detto Gigi, che, dopo l’anteprima all’ultima Festa del Cinema di Roma, arriverà nelle sale dal 3 al 9 marzo distribuito da Nexo Digital.

Prodotto da Italian International Film e Alea Film con Rai Cinema in associazione con Politeama e in collaborazione con Lexus, il film è cominciato raccontando A me gli occhi, please insieme allo stesso Gigi (“dentro c’era tutto il Proietti meno conosciuto: tutto il lavoro di sperimentazione e ricerca fatto con le avanguardie nel quale contaminava i generi”).

“Volevo raccontare che dietro quella maschera comica c’era un profondo conoscitore teatrale”, dice Edoardo Leo che ha ripreso Proietti ovunque e al Globe Theatre in una lunga intervista, che non sapeva sarebbe stata la sua ultima.

L’improvvisa scomparsa del grande maestro (avvenuta in piena pandemia, il 2 novembre del 2020) lo ha catapultato infatti in un film diverso dove era necessario ripercorrere la sua vita, ma anche ricercare il suo segreto.

Timido, riservato, semplice, Gigi Proietti ha ridato senso a quella parola che è popolare. “In uno dei suoi libri, dal titolo il Decamerino, scriveva che siamo nell’epoca dei superlativi - racconta Edoardo Leo -.

Finita la prima replica di A me gli occhi, please Gigi chiese alla madre se le fosse piaciuto lo spettacolo. Lei rispose: "Abbastanza. Ecco, lui è rimasto ancorato a qualcosa di semplice, non si è mai messo su un piedistallo e questo gli ha consentito di raccontarsi ridendo e stando dentro la città. Ha ridato senso a quella parola che si stava svuotando e che è popolare. Il suo rammarico forse è che a un certo punto la parola di comico ha preso il sopravvento su altri aspetti della sua persona e parte della critica lo ha un pochino sottovalutato. È stato un grande autore, intellettuale, che ha aperto un teatro da solo, il Globe Theatre, dove si poteva fare solo Shakespeare e dove i suoi stessi spettacoli erano tagliati fuori. Questo fa ben capire la grandezza e la modestia di quest’uomo”.

Anche con il teatro Brancaccio ci provò, ma fu una delusione. “Lo prese che era uno spazio vuoto. Lo ha ridato ai romani e lo ha fatto rinascere. Glielo tolsero per due volte e per lui fu una ferita enorme perché gli dispiaceva che lì i romani non potevano più vedere spettacoli colti e popolari al tempo stesso. Quando provai a parlare di quest’argomento lui glissò, quindi ho pensato che fosse meglio non pensarci più e così non gli feci altre domande”.

Al cinema si è visto poco. “Ha fatto pochi film e quelli che ha fatto sono dei cult come Casotto, Febbre da cavallo, alcuni complessi con Tinto Brass. Per lui era difficile programmare di fare film perché era un uomo molto legato al teatro e spesso era in tournée”.

Con la televisione ha avuto un rapporto contraddittorio. “Le prime cose che fece erano molto sperimentali, come il Don Chisciotte con i bambini presenti che potevano interrompere e fare domande. Portava la sperimentazione in televisione. Poi è diventato un one man show e ha provato a fare alcune cose con qualche caduta, come Fantastico, dal quale ne uscì con le ossa rotte. I tempi televisivi gli sembravano inconcepibili. Quando poi la televisione si è messa al suo servizio ha vinto la sfida e ha fatto Cavalli di battaglia e tanti sceneggiati televisivi entrati nell’immaginario di tutti”.

All’interno del film anche tante testimonianze preziose: Renzo Arbore, Lello Arzilli, Paola Cortellesi, Fiorello, Alessandro Gassmann, Marco Giallini, Loretta Goggi, Nicola Piovani, Anna Maria, Carlotta e Susanna Proietti. Quale il criterio della scelta?

“Ho cercato di intervistare le persone che erano legate a lui, ma non avevano lavorato tantissimo con lui - rivela Leo -. Volevo raccontare come la sua influenza uscisse fuori dalla cerchia delle persone che lo frequentavano. Per esempio Fiorello non ci ha mai lavorato insieme, ma nel doc dice: gli devo tutto. E poi ci sono alcune scelte emotive come Alessandro Gassman”.

A chi voleva fare il mestiere dell’attore Gigi diceva: “La recitazione non s’insegna, ma s’impara”.

“Il talento non si può infondere con una siringa - dice Edoardo Leo -. L’unica cosa che puoi fare è lavorare su te stesso e prendere dagli altri. Lui ha cercato di dare ai ragazzi l’etica del lavoro e del rispetto del pubblico. Per lui non c’era niente di più popolare di Shakespeare e per tutta la vita ha cercato di ridare dignità a questo concetto”.

Difficile mettere insieme una carriera così variegata. C’è qualcosa che gli dispiace non avere messo nel documentario?

“Tante cose. Nelle teche Rai ci siamo imbattuti in una quantità di materiale incredibile. Ogni volta avevamo dei rimpianti per cose che non avevamo messo. Di alcune non avevamo i diritti, pochi sanno che Proietti ha doppiato Stallone in Rocky I. Avrei voluto mettere le immagini di Rocky, ma la produzione americana purtroppo non ci ha concesso i diritti. Mi sarebbe piaciuto anche inserire alcune regie di opere liriche fatte a Caracalla. Ha fatto talmente tante cose che spero un giorno di poter fare un’extended version di questo film”.

Infine conclude: “Non pensavo di fare un compendio della sua vita, ma spero che questo film sia un motivo per riscoprire al cinema chi era Gigi. Noi gli dobbiamo tanto. A casa mia era una specie di istituzione. I miei non erano contenti che facessi l’attore, hanno capito che facevo sul serio quando sono tornato a casa e gli ho detto che avrei fatto una fiction con lui. Sapevo a memoria A me gli occhi, please. Lo sentivo nelle musicassette. Un’intera generazione di miei colleghi ha cominciato a fare questo mestiere dopo averlo visto a teatro. Fino agli ultimi giorni ho sempre avuto un timore reverenziale nei suoi confronti e non sono mai riuscito ad avere un rapporto amicale con lui perché rispetto a Gigi si resta spettatori”.