“È vero, ho già diretto Daniel Craig in veste di 007 per la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Londra. Ma non potrei mai fare il regista di un film su James Bond: li vado a vedere, certo, ma non posso dirigere film dove non si può contraddire la natura di base del personaggio centrale”. Partiamo da qui, dalla fine se si vuole, per comprendere quale sia stata, alla base, la molla che ha convinto Danny Boyle a realizzare Steve Jobs, biopic sul guru della Apple che Universal porterà nelle nostre sale a partire dal 21 gennaio 2016: “Lo dico molto candidamente – ammette il regista –, Jobs non è il mio eroe, ma allo stesso tempo è un dato di fatto che stiamo parlando di un uomo che ha cambiato il nostro mondo. Il mio non vuole essere un film politico né tantomeno voglio smontare il processo di beatificazione in atto nei suoi confronti: credo fosse un uomo che aveva una grande storia da raccontare”.

Danny Boyle

Scritto da Aaron Sorkin (Moneyball, The Social Network, nonché creatore di serie tv di enorme livello quali West WingStudio 60 e The Newsroom) e interpretato da Michael Fassbender, il film si concentra su tre momenti chiave della carriera (vita) di Jobs, tutti alla vigilia di tre importanti lanci commerciali, il 1984 (prima del flop Macintosh), il 1988 (prima del flop NeXT), il 1998 (prima dell’incredibile successo dell’iMac): nel dietro le quinte di quei velocissimi e al tempo stesso interminabili minuti, ci avviciniamo sempre di più alla controversa figura di Jobs, affiancato dall’onnipresente marketing executive Joanna Hoffman (Kate Winslet), maniaco del controllo e della perfezione, costretto ad improbabili incontri negli attimi precedenti le presentazioni dei prodotti e incapace di gestire il suo rapporto con la figlia Lisa, nata nel ’78 ma che riconobbe solo nel 1986.

“Sono tre periodi determinanti”, spiega Danny Boyle: “Il primo perché inaugurò la sfida con l’IBM, il secondo perché gli è servito come cavallo di Troia per sferrare la sua vendetta contro la Apple, il terzo perché diede il via alla rivoluzione che ci ha portato ai giorni nostri. L’iMac è stato il primo computer veramente cool, l’abbiamo acquistato tutti magari solo per far colpo sulle persone quando le invitavamo a casa. Fu l’inizio di un cambiamento epocale, che ha portato poi alla musica (l’iPod, ndr) e a Internet in tasca (l’iPhone, ndr)”.

Tre periodi contrappuntati anche stilisticamente da scelte ben definite: “Abbiamo adottato tre formati differenti, il 16mm, il 35mm e il digitale proprio per sottolineare questi passaggi”, dice ancora il regista, che ha dovuto mettere in scena uno script “insolito: la sceneggiatura era davvero corposa, 120 pagine quasi solo di dialoghi. Una pièce teatrale, se vogliamo. Ma a teatro si ha sempre la percezione di assistere in quanto pubblico, mentre con il cinema riusciamo a perderci, a entrare dentro la storia. E capisco che potrebbe anche scioccare il fatto che abbiamo portato così vicino un uomo finora considerato solo come icona. Mi interessava davvero molto però questa suggestiva convergenza tra un personaggio come lui, non un ingegnere, né designer, uno che di fatto ‘materialmente’ non sapeva realizzare nulla e la figura di un creatore di mondi proprio come potrebbe essere quella del regista cinematografico. Anche io, in quanto regista, probabilmente non so fare nulla di ‘concreto’: è un lavoro di squadra, nel quale poi ci sono momenti in cui bisogna prendere anche decisioni scomode”.

Un direttore d’orchestra, se vogliamo, l’uomo che – proprio come dice lo stesso Fassbender nel film, “a differenza dei vari strumentisti, fa suonare l’orchestra per intero” – un uomo che, però, per volere della vedova Laurene Powell, non doveva essere raccontato: “Non è stato facile, ma pur rispettando il suo dolore (la donna ha addirittura chiamato alcuni attori che la produzione stava prendendo in considerazione per il cast con lo scopo di dissuaderli…, ndr) volevamo fare il film ad ogni costo. Intanto – racconta ancora Boyle – perché il nostro lavoro non la coinvolgeva, visto che raccontiamo un periodo antecedente al loro incontro e al loro matrimonio, ma soprattutto perché credo sia ingiusto impedire che figure pubbliche così rilevanti vengano raccontate: non credo sia un caso che proprio Jobs, un maniaco del controllo, non abbia preteso alcun tipo di controllo sulla biografia scritta da Walter Isaacson, testo da cui è partito Sorkin per scrivere lo script: quel giornalista non avrebbe mai incensato Jobs, che voleva la sua storia venisse raccontata in maniera oggettiva”.

Anche, e soprattutto, per quello che riguardava il rapporto d’amore/odio con Steve Wozniak, nel film interpretato da Seth Rogen: “Wozniak è la persona più carina del mondo, è anche venuto a trovarci sul set – racconta ancora Boyle –. Certo, alla fine gli onori della gloria sono andati tutti a Jobs: Wozniak voleva che tutti potessero disporre di un sistema aperto, modificabile, mentre per Jobs era impossibile uscire dalla logica dei software end-to-end, senza i quali credeva fosse impossibile recuperare gli investimenti. Ma non era un uomo attaccato ai soldi: sapeva bene però cosa portassero, ovvero il potere. Quello che gli interessava davvero, come detto, era la gestione del controllo. Realizzare prodotti che potessero essere amati dalla gente, pensando così di essere amato a sua volta”, dice ancora il regista. Che, dovendo schierarsi, non ha dubbi: “Ribadisco l’assoluta importanza di una figura come Jobs, ma la mia filosofia è più vicina a quella di Wozniak. E, proprio come lui, credo si possa essere una persona di talento e al tempo stesso una persona perbene”.