Lo sport al cinema ha funzionato raramente. E quando l'ha fatto, è perché guardava ad altro: alla politica e alla storia, nel caso dell'Invictus di Clint Eastwood, in cui la meta non è solo quella del campo di gioco; alla guerra, come il calcistico Fuga per la vittoria (Stallone in porta, la Storia del calcio, da Pelè ad Ardiles e Deyna, in campo); al precariato e alla lotta di classe, come Looking for Eric, all'epica della sfida leale tra uomini come in Momenti di gloria o, in un altro modo e tempo, in Ogni maledetta domenica. O ancora era (pre)testo, lo sport, per raccontare anche e soprattutto altro, come lo splendido L'uomo dei sogni, in cui il baseball è poetico veicolo di sentimenti potentissimi o L'amore in gioco in cui i Farrelly offrono una storia d'amore nella cornice di una stagione dei Boston Red Sox innestata sul remake di Febbre a 90°. E la squadra del Massachusets è proprio quella che rese eroico ed esaltante Billy Beane, il protagonista di Moneyball: per amore della sua società rifiutò di diventare il General Manager più pagato della Major League americana, portando alla vittoria i plurisconfitti Sox. Beane fa parte di quel firmamento di stelle sto(r)iche e un po' sfigate che fanno impazzire i tifosi: i perdenti di successo. Quelli alla Zeman, insomma, scienziati più o meno pazzi, fondamentalisti delle proprie teorie, uomini di ghiaccio (bollente) tutto rigore e passione. Bennett Miller, però, la fa ancora più grossa, perché ci vuole coraggio per raccontare lo sport visto dalla scrivania di chi battitori e lanciatori li compra, rendendo affascinanti statistiche come la percentuale di arrivo in base o la Media Bombardieri. Sarebbe come fare un film calcistico su Napoli e Udinese, sui loro dirigenti Bigon e Larini e sui loro team, sui “miracoli” di mercato con cui se la giocano con le grandi foraggiate da multinazionali. Grandi storie, ma prive d'azione e pathos. O forse no, perché Moneyball (L'arte di vincere in Italia, in sala dal 27 gennaio distribuito da Warner Bros.) non ci risparmia nulla: cifre e disquisizioni tattiche, oscure trame di spogliatoio e corridoio, finezze per appassionati. Eppure, anche grazie alla coppia atipica Brad Pitt - Jonah Hill (che replicano il vero rapporto tra Beane e il mago dei numeri neolaureato Paul DePodesta), rimaniamo attaccati alla poltrona, ad assistere alle dispute tra il protagonista e l'allenatore “conservatore” Philip Seymour Hoffman, alle scaramanzie tipiche degli sportivi, alle telefonate di mercato, alla cavalcata di 20 vittorie dell'Oakland Athletics, con pochi soldi e molto coraggio. Film sportivi senza sport. O quasi, questa è la nuova tendenza. Nel Maledetto United, ad esempio, vedevamo Brian Clough negli spogliatoi, nello stadio, negli uffici dei dirigenti: sul campo, al massimo, litigava con i suoi giocatori. O li vedeva perdere nella nebbia. Qui Beane allo stadio neanche ci va. Film simili anche perché puntano su campionissimi come Pitt e Sheen. Moneyball è anche un libro incredibile, specialistico e allo stesso universale, di Michael Lewis. Un trattato sul baseball come scienza esatta- questo sì, principio opposto alle credenze di ogni tifoso- e allo stesso tempo biografia di un dirigente eccezionale. Pitt lo ha capito e metabolizzato, ne ha replicato la sensibile ruvidezza, il caratteraccio, la passione un po' antipatica. Il film, forse, è per appassionati, ma provate a tirarlo fuori dal diamante di gioco. Troverete Davide contro Golia, le motivazioni e il gioco di squadra, più forti di campioni troppo avidi. E allora vi potrebbe sembrare quasi un film politico, che ha meritato di aprire lo scorso Festival di Torino.