“Credo sia cruciale per i cineasti, gli artisti in genere, ascoltare i tempi in cui vivono: l’arte deve fare i conti con le oppressioni nei confronti dei più deboli e non può girarsi dall’altra parte”.

Reinaldo Marcus Green porta la sua opera prima, Monsters and Men, alla XIII edizione della Festa del Cinema. Già premiato allo scorso Sundance Film Festival, il film (in Italia arriverà con Videa) è ambientato a New York: è una notte come tante altre a Brooklyn, ma all’angolo di una strada nel quartiere di Bed-Stuy, un uomo di colore disarmato viene ucciso dopo una lite con le forze dell’ordine. L’episodio è il punto di partenza di una complessa indagine, che vede coinvolto un distretto di polizia e un quartiere dove vive una comunità di persone strettamente unite tra loro. Un testimone oculare (Anthony Ramos) che ha ripreso l’aggressione con il suo smartphone, un ufficiale di polizia (John David Washington) e un giovane studente promessa del baseball (Kelvin Harrison Jr.), sono i tre protagonisti di questa vicenda.  Attraverso i loro occhi, arriveremo a comprendere in profondità una comunità in fermento a causa di tensioni razziali, che lotta per un futuro migliore.

Reinaldo Marcus Green - Foto Pietro Coccia

“Il film non è un attacco alle forze dell’ordine”, chiarisce subito Green. “Piuttosto il tentativo di soffermarsi su una questione, già esplorata molte altre volte dal cinema, in maniera differente: ho capito che non bisogna abbassare la saracinesca di fronte alle opinioni differenti delle persone. Disprezzo molto alcune pratiche di questa istituzione ma non penso che tutte le forze dell’ordine siano così”, ribadisce il regista, che nel 2015 ha diretto il cortometraggio Stop, di fatto incentrato sull’evento che nel film porta in scena il terzo protagonista, il giovane ragazzo di colore fermato senza motivo e perquisito dalle forze dell’ordine.

Un unico punto di partenza, poi tre storie differenti abitate da personaggi che non necessariamente finiranno per intrecciarsi:

“Avevamo anche girato una versione in cui alla fine le cose si rimettevano insieme – svela il regista – ma l’ho sentita troppo artefatta, nella vita le cose non tornano come spesso siamo abituati a vedere nei film. Alla fine del film se senti la mancanza di uno di questi personaggi, perché non torna come ti aspettavi, vuol dire che allora ho lavorato bene”.

Chi sono gli uomini e chi invece i mostri?

“Sarebbe sin troppo facile trovare la risposta, ma la riflessione che ci interessava portare era piuttosto sull’atteggiamento quotidiano del singolo. Io cosa faccio per impegnarmi a far sì che lo stato delle cose possa cambiare? Questi tre personaggi – prosegue Green – devono fare delle scelte, possono chiudere gli occhi e far sì che le cose restino come sono, oppure nel loro piccolo fare qualcosa per far uscire allo scoperto certi soprusi. Per Manny la scelta è se pubblicare o meno il video, per il poliziotto di colore è dire qualcosa o meno, per il talento del baseball è scegliere se concentrarsi solo sul provino per qualche grande società o partecipare alla protesta della sua gente”.

Ma allo stato attuale delle cose, il cambiamento è davvero possibile?

“Ho fatto un film perché penso che si debba fare qualcosa, perché una volta che ti metti un’uniforme erediti la cultura della tua istituzione, o della tua squadra, ed è difficile separartene come individuo. Ma se parliamo di vite umane dobbiamo andare oltre il colore della maglia per avere un cambiamento reale”, dice ancora il regista, che poi si sofferma sull’aspetto politico della questione, tornando alla presidenza Obama: “In quegli 8 anni ha avuto molto da fare, due guerre, un’economia che stava arrivando a un punto di svolta, la riforma sanitaria. L’idea di un presidente nero nel nostro paese è stata una pillola molto dura da ingoiare per molti cittadini dell’America profonda e adesso ne stiamo constatando le conseguenze. C’è stata una reazione nel paese, non credo che un singolo presidente possa essere considerato responsabile del comportamento delle forze dell’ordine, che oggi sono comunque chiamate a rispondere di quello che fanno molto più rispetto al passato, con i tanti video amatoriali e i mezzi di comunicazione che i cittadini hanno a disposizione. Credo che gli equilibri si stiano un po’ spostando e qualche lievissimo miglioramento, certo non così rapido, credo sia ravvisabile. Non poteva bastare Obama come presidente per risolvere tutti questi problemi. Dobbiamo pretendere un dibattito, un dialogo su questi argomenti. Qualsiasi gruppo oppresso deve farsi sentire. Vorrei che la polizia vedesse questo film, perché non è diretto a puntare il dito contro qualcuno ma a cercare alcune soluzioni”.

Il cinema, dunque, ha ancora la forza di sollevare dibattiti così importanti?

“Certamente sì, io ho raccontato una storia drammatica. Ma si può fare anche attraverso altri generi, La vita è bella ne è un esempio straordinario. Magari nel mio prossimo film affronterò sempre tematiche difficili ma con un atteggiamento più leggero: pensiamo a Spike Lee, che ne ha fatto un marchio di fabbrica”.