“I fatti di Santa Maria Capua Vetere, dello stesso San Sebastiano a Sassari anni addietro, le violenze succedono, ma è quasi naturale finché il carcere rimane così: vanno immaginate altre forme di punizione e risarcimento. E non riguarda solo il Ministero di Giustizia, ma tutti”.

Dopo i documentari e i due lungometraggi di finzione L’intervallo (2012) e L’intrusa (2017), Leonardo Di Costanzo firma l’opera terza, Ariaferma, fuori concorso alla 78. Mostra di Venezia e dal 14 ottobre in sala con Vision Distribution.

nel film, il vecchio carcere ottocentesco di Mortana è in dismissione, allorché un impasse burocratico costringe un manipolo di detenuti e agenti penitenziari a rimanere lì, in attesa. L’imprevisto cambia le carte in tavola, toccherà a l’ispettore Gaetano Gargiulo (Toni Servillo) e il detenuto Carmine Lagioia (Silvio Orlando) trovare un nuovo equilibrio.

Per Di Costanzo, “il carcere è la soluzione che la società si dà per chiedere risarcimento a chi ha commesso colpe, delitti: non ne sapevo nulla, ho avuto la necessità di indagare molto realtà, ovvero incontrare persone che in carcere hanno vissuto, da una parte e dall'altra dei cancelli. Ariaferma veicola riflessioni sulla condizione umana, la punizione, il bene e il male, più che sul sistema penitenziario. C’è l’istinto, non tutto è razionale e calcolato, comunque, i film li finiscono spettatori e critica. Per la prima volta ho lavorato con attori professionisti, avevo timore, ma è stata un’esperienza entusiasmante”.

Quando ha ricevuto la sceneggiatura, Orlando si è “pensato guardia, poi il salto mortale, un altro ruolo. La recitazione è arte della memoria, è lontano da me un ergastolano, quindi il panico c'è stato: ho cercato di  essere all'altezza delle persone attorno a me”.

Servillo condivide la “scomodità di non interpretare un personaggio più prossimo alla mia esperienza precedente: ho evitato la routine, del resto, è un film che non ha nulla di routine. Per me Gargiulo è affascinante, un personaggio di decorosissima bontà, che s’impegna a evitare la catena della violenza in carcere da servitore dello Stato qual è. Vive il conflitto tra l’esercizio della responsabilità e l’esercizio della pietà, della compassione”.

Dice il produttore di tempesta Carlo Cresto-Dina, “cercavamo il panopticon, da cui Foucault avrebbe mutuato il sorvegliare e punire, e l’abbiamo trovato nel carcere di San Sebastiano a Sassari, un luogo appena dismesso, in cui si si sentiva ancora dentro la pena, ovvero punizione e reclusione”.

L’aspetto temporale è centrale: per Servillo “il tempo è lo stesso strazio per secondino e carcerato, una custodia a non fare niente, sicché possono impazzire gli uni e gli altri”; per Orlando, è “spreco di tempo, la cosa peggiore che possa capitare a un essere umano. C’è una ritualità che se interrotta crea terremoto, vedi il rancio nel film. La catastrofe, il punto di rottura è risolta in maniera diversa dal cliché carcerario, ovvero la repressione, la suddivisione in buoni e cattivi. Non succede nulla qui, ma si crea la vibrazione dell’attesa”.

Aggiunge Orlando, “non credevo di poter esprimere un senso di minaccia, una paura senza parlare: mi sono sorpreso. Per il resto, non è immaginabile il senso di costrizione e sadismo dello stare in cella”. E sul lavoro con Servillo, per la prima volta incrociato sul set: “L’unico mio rammarico sarebbe se questa esperienza non si ripetesse”. Servillo sottoscrive.

Conclude Di Costanzo, “oggi preferisco raccontare l’interiorità anziché le azioni, per questo mi sono allontanato dal documentario. Ho potuto beneficiare della ricchezza di riflessioni di chi sorveglia e chi è sorvegliato”.