Volevo nascondermi dice il cinema italiano. Le riaperture, i rilanci, il futuro, d’accordo. Ma siamo sempre lì: il fatto che esistano dei bravi autori, dei produttori intraprendenti, dei bei film non di rado apprezzati anche all’estero, perfino un timido rinnovo del parco attoriale non significa che esista il cinema italiano. E non tanto come sistema industriale, quanto piuttosto come immaginario riconoscibile, orizzonte culturale, sentimento popolare.

Giocare col titolo dell’asso pigliatutto della 66a edizione dei David di Donatello è facile. Però ci sembra spontaneo utilizzarlo di fronte alla cerimonia di premiazione del principale riconoscimento cinematografico di casa nostra. Non ce ne voglia l’ottimo Carlo Conti, per la sesta volta alla conduzione dell’evento, che come pochi sa maneggiare il rito liturgico della diretta televisiva ottimizzando i tempi e mantenendo il ritmo. Tuttavia la corsa a perdifiato – per citare il maestro Claudio Baglioni, candidato eccellente rimasto a bocca asciutta per la canzone de Gli anni più belli – ha fatto emergere la fragilità di un sistema che cerca disperatamente volti, corpi, storie in grado di rappresentare e riformulare il cinema italiano contemporaneo.

Elio Germano e Giorgio Diritti sul set di Volevo nascondermi @ Enrico De Luigi

Sintomatico, in questo senso, il parterre di premiatori: il divo Pierfrancesco Favino, le nuove Matilda De Angelis e Benedetta Porcaroli, la rassicurante Vittoria Puccini, il capo-corrente Valerio Mastandrea. Ma anche il tris di ragionati premi speciali sembra voler raccontare una galleria di facce riconosciute dunque da festeggiare, da Sandra Milo (le si vuole bene, come negarlo, però ha detto tutto oltre mezzo secolo fa) a Diego Abatantuono (a ben pensarci una scelta curiosa e tutto sommato molto condivisibile) fino a Monica Bellucci, apparsa in video come un’icona da celebrare.

Malgrado la motivazione vergata dalla presidente Piera Detassis, per il pubblico Monica Bellucci è l’immagine di uno star system fermo all’idea della maggiorata fisica, della bellezza da esportare, della quintessenza dell’italianità. Piccola erede su scala globale di Sophia Loren, che a 86 anni resta il nostro volto più conosciuto e amato all’estero: e in un paese votato alla nostalgia perenne – per di più legata a periodi non vissuti – il premio conferitole quale miglior attrice de La vita davanti a sé è inevitabile per tanti motivi, non fosse altro per le lacrime che hanno inondato i ringraziamenti della signora che appena pochi mesi fa si lanciava in una appassionata ma sfortunata campagna per la candidatura all’Oscar.

Vogliamo bene a Donna Sophia, ci siamo commossi vedendola così disponibile a donarsi in un film, e però è davvero il monumento nazionale dietro cui si nasconde questo cinema asfittico e incostante. La vita davanti a sé, d’altronde, è stato il film italiano più “considerato” all’estero in questa stagione proprio in virtù della presenza della diva (se ne facciano una ragione dalle parti di Notturno, battuto pure ai David da Mi chiamo Francesco Totti: abbiamo pianto col documentario sul Capitano, ma il capolavoro della cinquina è Punta Sacra). Così come il pluripremiato – e comunque immenso – La grande bellezza è stato accolto alla luce del fantasma felliniano, lo stesso che porta in dote l’adorabile Sandra Milo in ogni sua apparizione.

In fondo siamo sempre lì, a celebrare un’infinita adorazione nostalgica di un momento irripetibile della nostra storia, peraltro appena precedente al periodo rimesso in scena ne L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, la scaltra commedia su un’ambigua utopia interpretata da Elio Germano (l'attore dell'anno, il più versatile e autonomo) che porta a casa tre premi: effetti speciali (inattaccabile) e attori non protagonisti (De Angelis, più per il nome che per il ruolo; e Fabrizio Bentivoglio, finalmente premiato dopo nove candidature e a ventidue anni dal precedente David).

Ma i David di quest’anno hanno rivolto lo sguardo soprattutto al passato, dall’avventura umana e artistica di Ligabue di Volevo nascondermi – che, intendiamoci, al di là delle opinioni è quel che si dice un film complesso e problematico: ad avercene, e i sette premi ci stanno – alla riscoperta di Miss Marx (tre David: la produzione guidata da Gregorio Paonessa e Marta Donzelli, quest’ultima neopresidente del Centro Sperimentale; i costumi del candidato all’Oscar Massimo Cantini Parrini; e le musiche di Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo e Downtown Boys).

Storie difficili, riplasmate attraverso la visione di due registi – rispettivamente Giorgio Diritti e Susanna Nicchiarelli – in grado di ripensare e restituire le due vite a un pubblico contemporaneo, che colpiscono nella misura in cui si presentano ai nostri occhi l’una in una lettura letteralmente calata dentro la poetica del pittore naif e l’altra come reinterpretazione in chiave rock delle opere e dei tormenti di una ribelle femminista. Perfino Hammamet finisce in questo calderone: premiando il trucco che ha permesso a Favino di essere Craxi – e non Favino che truccato diventa Craxi – non è una conferma di un uomo ridotto a maschera di una politica resa carnevale funerario?

MISS MARX - foto di Emanuela Scarpa © Vivo film, Tarantula
MISS MARX - foto di Emanuela Scarpa © Vivo film, Tarantula
MISS MARX - foto di Emanuela Scarpa © Vivo film, Tarantula
MISS MARX - foto di Emanuela Scarpa © Vivo film, Tarantula

E così, nel gruppo dei premiati, sono pochi i film che interrogano il presente, le sue contraddizioni e i suoi umori. C'è Figli, miglior sceneggiatura originale a Mattia Torre (la statuetta l'ha ritirata la figlia Emma nel momento più commovente della serata), che è anche un discorso sulle stato delle cose della famiglia e sul futuro. C'è I predatori del ventinovenne Pietro Castellitto (miglior regista esordiente), così allucinato e grottesco nel raccontare una società in disfacimento. E c'è Tolo tolo, vera sorpresa dell'edizione grazie all'inatteso premio per la canzone (con sommo stupore ovvero rosicamento dei concorrenti, Laura Pausini compresa) e opus decisivo nella carriera del battitore libero Checco Zalone, il primo a non credere alla vittoria.

Vittoria che è mancata soprattutto a Favolacce, che senza tema di smentita è il grande sconfitto della serata dopo i riconoscimenti raccolti nel corso dell’ultimo anno, l’ascesa definitiva dei gemelli D’Innocenzo e il favore della stampa e di un certo pubblico. Si ha quasi l’impressione che i David abbiano voluto risarcire Volevo nascondermi (ultimo film coraggiosamente uscito in sala prima della chiusura di febbraio 2020, travolto dalla pandemia, recuperato in estate nelle poche sale riaperte, infine uscito on demand), ma se c’è un film in grado di dialogare con il presente senza vergogna né reticenze quello è proprio Favolacce. Un film che non vuole nascondersi, per l'appunto. E forse per questo un po' messo da parte.