“Non è una commedia romantica, almeno nell'accezione anglosassone. Sulla carta, era una commedia drammatica, un film sulle relazioni umane con momenti di verità toccanti, ma il distributore a un certo punto ha detto a me e agli altri produttori che era una commedia romantica… A noi gli ibridi piacciono, agli americani no: Sette anime la Sony decise che era un thriller, ma la critica anziché Seven si trovò di fronte un ibrido e lo stroncò”. Così Gabriele Muccino apre la conferenza stampa di presentazione di Quello che so sull'amore (Playing for Keeps), dal 10 gennaio nelle nostre sale in 450-470 copie con Medusa, dramedy sentimentale girato negli States e interpretato da Gerald Butler, una ex stella del calcio che cerca di recuperare il rapporto con Jessica Biel e il figlio, tenendo a bada le lusinghe di Uma Thurman (il marito è Dennis Quaid) e Catherine Zeta-Jones.
Quello che so sull'amore non è andato bene negli Usa: 13 milioni di dollari al botteghino, a fronte di un budget di 20, e recensioni critiche negative. Il perché lo spiega Muccino: “Will Smith m'aveva detto che negli usa il marketing è più importante del prodotto, ebbene, il mio film ha inanellato trailer confusi e sbagliati, un manifesto brutto e un titolo insignificante, soprattutto, è uscito nel weekend più debole dell'anno (7-9 dicembre). Questa collocazione e l'inserimento in un genere che non gli appartiene hanno creato problemi, ma sarebbe sbagliato dire che il pubblico l'ha stroncato: ha avuto test screening positivi e pareri buoni (B+) di Cinema Score dagli spettatori all'uscita della sala. Non ha avuto la possibilità di mettere in atto il passaparola”.
Muccino ritorna anche sulle polemiche suscitate dalla sua intervista a Curzio Maltese di Repubblica e in particolare sulla sua battuta “incriminata”: “Hollywood è spietata”: “Non so se l'ho detto davvero, ma se l'ho fatto è una cosa sbagliata: i miei più grandi successi (La ricerca della felicità e Sette anime) li ho fatti con la Sony e Will Smith, ovvero la quintessenza di Hollywood. Viceversa, questo film è indipendente, e peraltro ha cittadinanza italiana”. Da Muccino un attestato di perpetua riconoscenza a Will Smith (“Hanno fatto una formina unica per lui”) e una autocertificazione di follia: “Sono matto, altrimenti non rimarrei a Hollywood: ogni volta mi trovo a competere con Ron Howard, Steven Spielberg, Robert Zemeckis sugli stessi progetti: è come rubare la palla a Messi. Sono un privilegiato storico, nessun italiano,a  mia memoria, ha fatto tre film in quel sistema lì. La sfida è con me stesso, non voglio uscire dall'arena senza aver vinto, deciderò io quando, ma ho il privilegio di poter tornare e lavorare liberamente, almeno finora, in un Paese che amo: se non avessi questa porta aperta alle spalle, sarei ancora più angosciato, perché gli usa danno angoscia”. Già, perché “la cultura americana mi è estranea, sono diversi da noi: gli italiani sono temperamentosi, questi urlano sottovoce. E le donne? Sono prive di pathos, non ti dicono quello che hanno nel cuore, divorziano in silenzio. Ma io mi sono mimetizzato bene, non ho messo nei film quegli stereotipi che i registi americani mettono girando in Italia. Nessuno, nemmeno nelle stroncature, ha mai scritto di me “regista italiano””.
Quello che so sull'amore Gabriele l'ha fatto per “raccontare la storia di una crescita, un viaggio verso la maturità: i 40 anni sono una barriera superata la quale non puoi più far rientrare niente. Se rimani un ragazzo, invecchi male, e la terza età può essere malinconica”. Farà un altro film negli Usa, Muccino, un film indipendente, magari con l'amico Woody Harrelson nel cast, per ora Playing for Keeps è stato venduto in tutti i Paesi, eccetto Medio Oriente e Giappone, ed è andato molto bene in Russia: “Il trend è andare là”, scherza Gabriele. Eppure, il magro risultato negli Usa e le dichiarazioni rilasciate a Repubblica pongono un'ipoteca abbastanza seria sulle sorti del film in Italia: “Boh, non credo la gente abbia letto così tanto i giornali, diciamo che me lo auguro”.