“Perché in bianco e nero? Mi aspettavo questa domanda... mi sembrava lo cosa giusta per il film, che parla di un'altra grande depressione, quella attuale”. Così il regista Alexander Payne presenta Nebraska, lungamente applaudito in proiezione stampa e serissimo candidato alla Palma d'Oro del 66° festival di Cannes.
Protagonista il mostro sacro Bruce Dern nei panni di Woody Grant, un povero vecchio che scappa ripetutamente dalla sua casa in Montana per cercare di raggiungere in Nebraska il fantomatico premio da un milione di dollari che avrebbe vinto: frustrata dalla sua progressiva demenza senile, la famiglia inizia a pensare di metterlo in ospizio, finché il figlio David (Will Forte), pur comprendendone l'inutilità, accetta di accompagnarlo in auto in Nebraska. Ma quando Woody si ferisce alla testa, David decide di fermarsi nella cittadina originaria del padre...
“Il film è fatto nel tempo in cui è fatto, lo script è di 9 anni fa, eppure la malinconia arriva a oggi, il vento delal scoietà soffia sul film. Ma non chiedetemi il significato del film, io sono solo il regista”, dice Payne, mentre il 76enne Dern (padre di Laura, presente in conferenza stampa) riconduce la malinconia al fatto di “aver dovuto aspettare 9 anni per recitarvi. Da Hitchcock a Coppola e Tarantino ho lavorato con grandi registi, che ti fanno prendere rischi spingendoti al limite, viceversa, Payne ti prende dal basso e ti rialza con un abbraccio: alla fine del film, anche io ho trovato mio padre, Alexander”. Come ha lavorato Payne con gli attori? “Ho chiesto certe cose e loro le hanno fatte”, scherza il regista, mentre l'attrice Angela McEwan, l'amore giovanile di Woody, puntualizza che “Alexander ti fa credere di aver avuto una bella idea, ma è la sua”.
Tra le ispirazioni, Payne conferma di aver visto “The Last Picture Show di Peter Bogdanovich e altri film in bianco e nero degli anni '60 e '70, che mandano un profumo di decadenza” e rivela che la scelta del b&n ha fatto abbassare i costi e, nonostante sia nato in quello Stato, “il Nebraska rurale suona esotico per me”. Viceversa, Dern non recitava più da protagonista da 25 anni, ma, dice, “al cinema non si corre, è una maratona”, mentre il regista ne loda “la fiducia che mi ha accordato: ha scleto per la sceneggiatura ma soprattutto perché si fidava ciecamente di me”. “Anche  a livello personale – prosegue Payne – mi piace che alla fine il figlio riesca a restituire al padre un po' di dignità”.
Ultima parola a Bruce Dern: “Ho fatto tanti movies, questo è un film: il mio lavoro è stato quello di credere in Alexander. Mi chiedevano perché ogni giorno fossi contento, eccitato sul set, ebbene, perché stavamo facendo qualcosa che non era mai stato fatto”.