Democrazia, dittatura, guerra in Iraq. Spara a zero su tutti e non risparmia neanche l'America del presidente Bush, Alfonso Cuarón. Oggi a Roma per presentare il suo futuristico I figli degli uomini, in anteprima il 15 novembre al Festival Tertio Millennio e poi nelle sale dal 17, il regista messicano riserva un primo affondo a Stati Uniti e Inghilterra: "Oggi la dittatura può facilmente mascherarsi da qualcos'altro. In base all'attuale accezione, anche paesi come questi, al pari dell'Iraq, possono considerarsi democratici". Non lascia scampo, Cuarón, che incalza e argomenta la sua teoria con un fuoco di interrogativi: "Può chiamarsi democrazia quella dell'America, dove ci sono solamente due possibilità: Pesicola o CocaCola, McDonald o Burger King, democratici  e conservatori?". Una stoccata raggiunge infine anche la produzione del film: "Sono molto grato alla Universal che mi ha lasciato lavorare liberamente. Uno dei produttori pensava però che fosse una storia sulla ex Unione Sovietica e io glielo ho lasciato credere, continuando a ripetergli: 'Sì, i russi que malo, que malo'."
Ispirato all'omonimo romanzo di P.D. James, I figli degli uomini è ambientato in un futuro prossimo dominato da guerre, carestie e dittature. Da 20 anni la sterilità è una piaga sociale, ma una ragazza nera sta incredibilmente per dare alla luce un bambino. A guidarla verso la salvezza, un disincantato ex attivista interpretato da Clive Owen, affiancato dalla bella Julianne Moore: "La premessa da cui sono partito è la situazione di oggi - spiega Cuarón -. Ho guardato a Bagdad, a quello che accade nei Balcani, ai disastri ecologici. Sono tanto pessimista rispetto al presente quanto ottimista per il futuro. Stiamo scivolando così verso il baratro, che non possiamo non cambiare rotta". Il fatto poi che a incarnare la speranza sia una ragazza nera, dice, risponde a una precisa scelta politica: "Una scelta  molto simbolica e cosciente. Non volevamo una fantascienza che lanciasse ipotesi sul futuro, ma che aiutasse a riflettere sul presente". Da questo la scelta del 2027: "Un'epoca relativamente vicina per immaginare il mondo di domani e sufficientemente lontana per mascherare ciò che accade già oggi".
Come già in passato, anche questa volta i bambini tornano a giocare un ruolo determinante: "Quello dell'infanzia e della gioventù è un soggetto ricorrente nella maggior parte dei miei film - dice il regista -. Del resto i nostri figli sono l'unica speranza che abbiamo. I figli degli uomini vuole riflettere su come l'ideologia ostacoli la comunicazione tra le persone. Poiché fede e speranza sono collegate, oggi è diventata essa stessa un atto di fede. Ed è così che i problemi del mondo vengono polarizzati ed esasperati". Proprio il fatto di partire da un presente così fosco, costituisce però secondo Cuarón la giusta spinta per il cambiamento: "Sono convinto che le evoluzioni saranno positive. Le generazioni future, nate in un mondo così brutto, dovranno necessariamente cambiare qualcosa. E questo spiega anche perché i politici hanno paura dei giovani". La speranza che il regista trova nei giovani è la stessa che sembra sia andata oggi perduta: "Non mi interessava fare un film di fantascienza - spiega ancora il regista - ma quello che volevo evidenziare era la crescente mancanza di speranza dell'umanità". Ad incarnare questo stato d'animo è nella storia proprio il disilluso ex attivista, per la cui interpretazione Clive Owen ha fra l'altro ricevito a Venezia il Premio Persol.