San Valentino era africano? A giudicare dall'entusiasmo dei cittadini del Burkina Faso verso il protettore degli innamorati diremmo di sì. Altro che affamati, diseredati, ammalati o perseguitati, gli africani di Amour, sexe et mobylette - passato ieri in concorso al Festival dei Popoli - sono soprattutto innamorati. E ci voleva una donna, la bolognese Maria Silvia Bazzoli, per cogliere il vero cuore pulsante del Continente Nero. Insieme all'etnologo Christian Lelong, la Bazzoli porta il suo 16mm all'interno di Koupela - un piccolo villaggio del Burkina Faso - per osservare, ascoltare e raccontare l'amore in tutte le sue declinazioni. Romantici di ogni età, che senza troppi pudori parlano della maniera di vivere i sentimenti, dei sogni che hanno fatto, delle "botte" che hanno prese, di un'amata lontana o di un fidanzato pericolosamente vicino.
Semplice (un microfono e la vita delle persone, nient'altro), pieno di musica e di gioia di vivere, Amour, Sexe et Mobilette è un tentativo, come sottolinea la sua autrice, di "disegnare l'immaginario amoroso in un Paese dalle complesse mutazione e alle prese con problematiche quali l'ordine sociale, la tradizione, la sessualità e il fantasma sempre incombente dell'Aids". E di mutazioni ne sta conoscendo parecchie anche l'Iraq del dopo Saddam raccontato da Kasim Abid in Live After the Fall. Tornato a Baghdad dopo un'assenza di quasi trent'anni, Abid ritrova il calore della famiglia, lo spirito inossidabile della vecchia mamma, le attese piene di speranze delle nipoti, e scopre come è cambiata la loro vita da quando il regime è caduto: "Ho voluto fare un film - dichiara l'autore - che si concentrasse sull'esperienza umana, che mostrasse che gli iracheni sono persone reali. E testimoniare come, cinque anni dopo la fine di Saddam, la realtà del mio popolo sia cambiata poco. Ogni giorno è una sfida enorme. Ogni cosa, come prendere i tuoi figli a scuola o comprare verdura al mercato, può essere estremamente pericolosa".
Abid ci lascia entrare senza diffidenze nelle case degli iracheni, ospiti ben accetti ai quali si può parlare con franchezza, permettendoci di scoprire lontani dal frastuono dei media come quel popolo stia vivendo la fine di un regime, l'occupazione americana, i presagi di un futuro avvolto ancora nella nebbia. Il valore testimoniale di Live After the Wall è indiscutibile, ma il modello è il reportage televisivo e la durata (155 min.) francamente troppo lunga.