Cavalleria rusticana ha una compiutezza espressiva che in fondo riproduce, dilatandolo musicalmente, il pregio della novella di Verga da cui deriva. Ma ne riproduce anche la stringatezza nella misura breve della rappresentazione,tale da non coprire la durata consueta dello spettacolo operistico. Perciò ha dovuto subire un destino di "coabitazione",concretatosi a lungo nell'abbinamento a Pagliacci, fra l'altro per una certa complementarità ambientale legata al Meridione, calabrese in Leoncavallo, siciliana in Mascagni. Nella stagionr scorsa il Teatro dell'Opera di Roma propose un nuovo accostamento: Cavalleria,che è del 1890, a Il Cordovano di Goffredo Petrassi, composto 60 anni dopo, stimolando un confronto non inutile fra la drammaticità enfatica della prima e il distacco ironico dell'altro, riflesso di una distanza fra concezioni diversissime del teatro musicale. Quest'anno la Fondazione lirica romana ha scelto di non uscire dal mondo di Mascagni anteponendo all' "atto unico" tratto da Verga un'opera sperimentale del compositore, la musica per il film di Oxilia Rapsodia Satanica, da eseguirsi congiuntamente alla proiezione sullo schermo (v. "Rapsodia restaurata" di Luca Pellegrini il 17.3). Un raffronto tuttavia risultava, quello tra fasi creative difformi dell'artista Mascagni, impetuoso ma stilisticamente sommario in Cavalleria, più maturo nel 1915 quando lavorò alla Rapsodia. Ma di riflesso, nel nuovo abbinamento voluto e diretto aul podio dal M° Marcello Panni, lo schietto capolavoro "rusticano" ha sprigionato senza confronti il suo autonomo valore teatrale espresso da una musica di presa immediata, cioè senza le mediazioni che con gli anni il musicista cercò ed acquisì, soprattutto per la pratica di valente direttore d'orchestra con una culrura vasta e aperta ai nuovi linguaggi. E in questo allestimento riproposto dall'Opera di Roma è proprio l'attenuazione di quel carattere "rusticano" a conferire forza nuova all'empito musicale. Il regista Stefano Vizioli, con il conforto della scenografia di Maurizio Varamo tratta da un bozzetto di Renato Guttuso, rivela ancora una volta intuito felice nell'aver abolito gli usuali riferimenti al turgore folclorico siciliano, per scoprire invece una asciutta ritualità di ascendenza magnagreca, mitigando anche gli eccessi di verismo vocale, seguito in questo più da Ambrogio Maestri, nella parte di Alfio, che non da Giuseppe Giacomini, quale Turiddu. E l'accorta direzione di Panni fa il resto nel dare smalto alla ricchezza dell' orchestrazione.  

Foto: Corrado Falsini