“Un rapporto quasi materno tra padre e figlio, che non va sbandierato ai quattro venti”. Nelle parole del regista, è il punto di partenza di Alza la testa di Alessandro Angelini, che ritorna in concorso al Festival di Roma dopo l'apprezzata opera prima L'aria salata, che quattro anni fa valse il premio miglior attore a Giorgio Colangeli. Interpretato da Sergio Castellitto, lo stesso Colangeli, Anita Kravos e l'esordiente Gabriele Campanelli, Alza la testa, che arriverà in sala il 6 novembre con 01 Distribution, segue Mero (Castellitto) alla ricerca del cuore espiantato al figlio, promettente pugile (Campanelli), in seguito alla morte cerebrale per un incidente in scooter: da Ostia a Gorizia, “in un film sinuoso e anarchico - dice Angelini - che ricorda la vita da vicino e la sua non linearità, passando anche dall'incontro-scontro con chi è venuto da fuori (gli immigrati, NdR)”. “Non c'è un finale consolatorio, né una pacificazione né una storia d'amore, sono stufo di film in cui qualcuno in tre scene ti risolve la vita", prosegue il regista, che sottolinea come” la donazione degli organi dia un punto in più alla vita: non c'è rimedio per chi perde un figlio, ma dare una nuova possibilità a un'altra persona è già qualcosa”.

Protagonista di una grande prova, Castellitto parla di “un film semplice, molto popolare, leggibilissimo e fisico, in cui il dolore puzza e instupidisce. Il mio personaggio, che Pasolini avrebbe definito un proletario, è un operaio con un palese dolore psichico, come oggi nessuno lo racconta. Un padre-madre, abbandonato dalla moglie che è invasivo, possessivo, e che si troverà di fronte a quell'autentica ingiustizia che è la perdita del figlio. Ma qualcosa scricchiola, decide di donare il cuore, e, cosa inaccettabile ma che lo rende simpatico, di seguirlo, al nord, nel freddo: lo troverà nel posto per lui, basico razzista senza cultura, meno appropriato”.

Se per Castellitto Alza la testa "ha un andamento alla Loach o ai fratelli Dardenne, a differenza di tanto cinema più attento allo specchio che alla finestra aperta: è uno schiaffo al cinema autoreferenziale, intellettual-doloroso”, per Anita Kravos, che interpreta un trans, “il film ha un messaggio di grande dignità: la mia Sonia va avanti a testa alta, si è fatta carico dei suoi bisogni e della sua identità, ricevendo tanti pugni in faccia. Come Mero, ha un aspetto duro, ma dentro è tenera e femminile. D'altronde, ogni percorso di autoaffermazione porta con sé il rischio della non accettazione altrui: Sonia è un pianta nel cemento, che riduce le sue necessità, ma continua a vivere”.