“Molti di voi si chiederanno perché uno come me, un autore di commedie, sceglie di proporvi Ordet. È semplice: per me Carl Theodor Dreyer è il più grande regista della storia del cinema”.

Al Lecco Film Fest, il festival organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e promosso da Confindustria Lecco e Sondrio, è il giorno dell’ospite più atteso della terza edizione: Carlo Verdone, distante per cause di forza maggiore ma che non ha voluto deludere il pubblico al quale è profondamente grato per l’affetto che gli ha sempre dimostrato.

“Avevo 26 o 27 anni – ricorda Verdone – e un pomeriggio andai al Filmstudio, un glorioso cineclub di Roma, perché ero convinto che proiettassero Metropolis di Fritz Lang, un regista che amo molto. Quando arrivai, scoprii che c’era stato un cambio di programma: così mi ritrovai di fronte alla scena della resurrezione di Ordet. Rimasi interdetto, la fotografia era meravigliosa, anche se non capii molto: era una morte apparente o un vero miracolo? Allora decisi di vederlo tutto, affittai alla San Paolo una copia da 16 mm. Dopodiché vidi gli altri film di Dreyer, da La passione di Giovanna d’Arco a Vampyr fino a Gertrud: credo che abbia diretto i più bei film in bianco e nero della storia del cinema”.

Carlo Verdone (foto di Karen Di Paola)

L’incontro con Verdone arriva dopo l’affollata proiezione di Ordet al Nuovo Cinema Aquilone: “È un film che si presta a molte letture simboliche – spiega mons. Davide Milani, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo – a partire dai nomi dei personaggi, come Johannes che incarna la potenza della parola. È un film di miracoli: il miracolo della fede per il marito di Inge, il miracolo riconciliazione tra le famiglie da sempre ostili, il miracolo dell’amore. E sullo sfondo c’è la questione religiosa: Dreyer è contrario a una fede staccata dalla vita, che non c’entra con il quotidiano ma rende problematica la vita perché crea dissidi e usa la retorica. Il grande tema è come si genera la fede: il dispositivo è la partecipazione, l’attaccamento alla vita. Nella visione di Dreyer si raggiunge l’assoluto solo se si vive la vita come mistero. E il mistero ci nutre anche se non lo comprendiamo”.

“Un immenso regista – commenta Verdone – che aveva il dono di ipnotizzare lo spettatore attraverso il rigore della messinscena, con movimenti impercettibili, anche lavorando sul nulla. Si sente sempre da fuori un accenno al rumore della natura: uccelli, fiume, lavoratori. La musica di Dreyer è questa. Il vento porta sempre qualcosa di sinistro, annuncia sempre qualcosa”. “Il vento infastidisce – chiosa Milani – e sparisce quando c’è una nuova creazione, una rigenerazione. Dio crea con la parola: non fa le cose ma le ordina, le separa”.

È travolgente la passione con cui Verdone parla del maestro danese: “Ogni faccia è perfetta, non ho mai trovato un attore sbagliato in un film di Dreyer. Non si sente mai la noia della macchina statica perché la tensione continua, data dalle pause e dai silenzi, ti inchioda alla sedia. Dreyer è austero, ricorda la pittura di Goya, riusciva a dare emozioni incredibili fatte col nulla. Da lui ho cominciato ad amare il cinema nordeuropeo, il migliore in assoluto”.

Nella pièce originale di Kaj Munk, la questione se il miracolo avvenga o no resta sospesa, mentre Dreyer decide di metterlo in scena. Quanto è difficile per un regista fare una scelta del genere? E il regista Verdone ha le idee chiare: “Difficilissimo, quasi impossibile. Quella scena è il vero grande cinema. in Ordet il bianco predomina: può essere lattiginoso per dare un senso di solitudine, splendente o accecante come quello della resurrezione. Lo dico da regista: nessuno sarebbe in grado di fare una scena con tale emotività, tale eleganza, tale ipnosi. Dreyer è il vero regista”.

Incalzato dalle domande di Gianluca Arnone (coordinatore editoriale della Fondazione Ente dello Spettacolo), Marina Sanna (giornalista e critica della Rivista del Cinematografo) e Ciro D’Emilio (regista di Un giorno all’improvviso), Verdone ha rievocato un irresistibile aneddoto sul tema “miracoli”: “Sul set di Ma che colpa abbiamo noi, l’attrice che interpretava la vecchia psicanalista – che nella storia moriva durante una seduta della terapia di gruppo – morì davvero. Le avevo chiesto di restare almeno 15 secondi, senza respirare. La portano in ospedale. Da lì mi chiama il primario dicendomi che si trattava di un caso di morte apparente. Allora chiamai l’attrice: ‘Signora, ma lei ce more così…’. E lei: ‘Io sono un’attrice diligente, lei mi ha chiesto di morire quindi io sono morta’. Insomma, abbiamo avuto una specie di Ordet comico”.

Per Verdone quest’ultimo è stato un anno molto fertile: il successo della sua prima serie televisiva, Vita da Carlo su Amazon Prime Video (“Stiamo scrivendo l’ultimo capitolo della seconda stagione, non sappiamo ancora su quale piattaforma ci dirotterà la Filmauro. Le riprese dovrebbero partire a inizio ottobre”) e del suo libro, La carezza della memoria, nato nei giorni del lockdown.

 

“È stata mia figlia – spiega Verdone – che mi ha suggerito di occupare il tempo scrivendo. Cercavo un’idea dentro casa. Mi imbatto in una scatola molto pesante, sigillata dal mio compianto segretario: non l’avevo più voluta aprire, c’erano ancora dei suoi appunti, mi provocava dolore. A un certo punto la scatola cade, si rompe: ogni oggetto mi riportava a una storia. Guardando bene lì dentro c’erano elementi che appartenevano a varie epoche. Così mi sono messo a nudo. Non ho paura di parlare delle mie fragilità in cui possono riconoscersi anche gli altri. Son venuti fuori racconti tristi, malinconici, divertenti, comici, riflessivi, con coraggio e sincerità”.

È l’inizio di una nuova carriera? “Non mi considero uno scrittore ma lo diventerò: la scrittura è un esercizio continuo, ti dà una libertà assoluta. Nel cinema c’è sempre un compromesso tra te e il produttore, tra te e il pubblico”.

E sul futuro del grande schermo non nasconde le preoccupazioni: “Prendiamo atto che ai ragazzi piace vedere le serie sul cellulare, ma la sala è il tempio dell’immagine. Dobbiamo fare qualcosa per superare la crisi. E una grossa mano la devono dare i registi: devono fare film decenti. Non puoi deludere il poco pubblico che ancora va al cinema”.

Film italiani? “Ho cercato di vederne il più possibile. Sono rimasto deluso da diversi autori, mi aspettavo uno scatto. C’è questa corsa a fare film con le sovvenzioni pubbliche, non si è mai visto un momento della storia in cui si fanno così tanti film. Stanno lavorando tutti, ho difficoltà a trovare operatori per il mio film. Si scrivono a grande velocità, restano poco in sala, vanno subito su piattaforma e prendono i finanziamenti pubblici. Eppure nessuno va al cinema. O dai un buon prodotto o è finita”.

Carlo Verdone al Lecco Film Fest (foto di Karen Di Paola)

Le cause? “C’è pressapochismo. Andiamo avanti seguendo parametri vecchi, logiche del passato. Dobbiamo fare dei bei film raccontando questa realtà complicata, questo momento poco felice. E farlo senza violenza, senza volgarità, perché c’è anche un altro modo di fare cinema”.

E c’è un altro ricordo legato a Dreyer, un momento commovente che Verdone regala al pubblico del Lecco Film Fest: “Dentro una di quelle scatole riaperte durante il lockdown, ho trovato una foto incorniciata di Dreyer, con dietro una dedica a mio padre Mario, che è stato il primo docente universitario di storia e critica del film in Italia. A forza di evocare i fantasmi, alla fine li ho fatti apparire”.

E prima di salutare un annuncio: “Ci sarò il prossimo anno per la quarta edizione”.