E' il regista chadiano Mahamat Saleh Haroun il vincitore del Premio Robert Bresson 2010. Autore di Daratt e Un homme qui crie, ha ricevuto oggi il riconoscimento della Fondazione Ente dello Spettacolo dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia.
Col titolo Bye Bye Africa, nel 1999 iniziava la sua avventura di cinema. Era un addio alla sua terra o un arrivederci?Bye Bye Africa non era né un film d'addio né un arrivederci, ma semplicemente un ciao all'italiana. Mi impressionava lo stato di degrado delle sale di cinema in Africa, stavano chiudendo un po' dappertutto. Mi chiedevo: avrà ancora un futuro il cinema in Africa?  Come sarebbe stato possibile realizzare film nel mio paese e come farlo sopravvivere in un Continente in cui i problemi erano e sono enormi?Come è nata la sua passione per il cinema? Parlando delle sale?E' nata grazie a Roberto Rossellini, quando ho visto per la prima volta Roma città aperta e ho capito come un film non è soltanto un reportage che racconta storie, ma la mente e il cuore di autore che prima di tutto sta dietro quelle storie raccontate, con il suo personale punto di vista. Lì ho capito che forse anch'io sarei potuto diventare un cineasta per raccontare la gente del mio paese, con lo stesso realismo con il quale lo faceva Rossellini della sua.Raccontare l'Africa per ricordare o per sperare?Filmare è di per sé già immortalare le cose e filmare dei giovani poi è in qualche modo già dare speranza, perché anche quando c'è un solo uomo che marcia, c'è della speranza. In realtà, non si può che non sperare nell'uomo. Anche se i miei film appaiono, a volte, un po' pessimisti, sono in realtà inscritti in una speranza legata a tutte le forme di vita umana presente sulla terra. Si tratta, quindi, di scrivere, di parlare di speranza. Il semplice fatto di filmare e di vedere dei giovani, per me, è già un segno di speranza.Il sottotitolo italiano del suo splendido Daratt, che a Venezia nel 2006 vinse il Premio speciale della Giuria, era La stagione del perdono. Secondo lei questa stagione è già sbocciata in Africa?Sì. Credo che sia già nata. E' fragile, ma è già nata. Il cammino è ancora molto lungo. Se possiamo, però, ottenere il perdono e la riconciliazione, sarebbe un qualcosa di formidabile. Non mi sembra questo il caso, ma mi sembra che ci sia sempre - grazie a questi film, grazie a queste piccole luci che illuminano nel buio - questo “orizzonte”: il perdono è scritto come orizzonte. Il cammino deve, quindi, continuare fino a raggiungere questo “orizzonte” di perdono e di riconciliazione. Ma come voi sapete, se c'è della luce all'orizzonte, allora c'è della speranza. Quello che io racconto nei miei film è il cammino della gente, il cammino verso la luce. E' cosi che io affronto il mio lavoro di cineasta.Lei ha raccontato nel film che nell'ultima edizione del Festival di Cannes ha vinto il Premio della Giuria, Un homme qui crie, il pianto di un padre. Quali sono le ragioni per cui in Africa ancora tanti piangono?Ci sono ancora tanti uomini che piangono in Africa. Lo fanno a causa della sofferenza, perché non trovano il manifestarsi di Dio. Credo che il loro pianto non sia capito, si sentono tenuti ai margini, dove nessuno si interessa dei loro problemi. E' un dolore che nasce forse dall'indifferenza del mondo.Secondo lei oggi qual è la malattia più grave che affligge l'Africa?Oggi le malattie sono dovunque nel mondo. Penso però che la prima malattia dell'Africa sia l'assenza di educazione. Soltanto attraverso l'educazione possiamo trasmettere uno spirito di tolleranza e di perdono, lo spirito del vivere insieme che è molto importante perché in Africa ci sono paesi composti da decine di etnie e tutto questo ha bisogno di uno spirito di unità che noi non abbiamo ancora trovato. Questa è la fragilità essenziale dell'Africa.Fragilità dell'Africa. Ma anche il mondo europeo e occidentale vive oggi di incredibili fragilità. Quando lei si avvicina al nostro cinema che le racconta, come le vive?Mi sembra che in Europa il cinema non riesca più a rappresentare molte categorie di gente che la compongono: penso agli operai, alle famiglie credenti, ai sacerdoti, a intere fette della società che sono escluse da quella rappresentazione che solo il cinema sa dare. Forse questo capita perché la maggior parte dei film sono finanziati dai canali televisivi e questi impongono l'audience prima di tutto. Il cinema che s'interroga sulle vostre fragilità è in netta minoranza. Ha abbandonato le domande sul reale, è diventato soltanto spettacolo. In questo senso, il cinema dei fratelli Dardenne credo sia assolutamente un'eccezione.Nei confronti del cinema africano, qual è la sua posizione? Nella vita sono di carattere piuttosto pessimista. Ma Tarkovskij ha detto che l'artista non può essere né pessimista né ottimista, ma soltanto di talento o mediocre. Ma come ho già detto, il solo atto di filmare il mio paese è un gesto di speranza. Credo che valga per tutti. Vuol dire che c'è ancora una possibilità che grazie al cinema qualche cosa cambi. Così, divento ottimista.Quando arriva a Cannes e a Venezia, in ambienti in cui attraverso il cinema prende contatto con il mondo occidentale della cultura, del commercio, dell'industria, della politica, del potere, ho una curiosità: quale ricordo ha della sua terra, del Chad?Mi ricordo del mio paese come farebbe una mamma con un figlio. Cerco di essere sempre me stesso, ricordandomi di chi sono, da dove vengo, non mi faccio prendere dall'opulenza ma ogni volta che mi siedo a tavola e mentre passano i piatti penso a chi di piatti non ne ha nemmeno uno. Vivendo questo contrasto sono ancora più vicino al mio paese che porto nel cuore. Non lo dimentico mai, in ogni circostanza.Quando a Cannes è stato presentato Un homme qui crie lei ha affermato che questo suo film lancia un grido contro il silenzio di Dio sulla violenza in Africa. In che senso?Tutte le persone, anche quelle che praticano una religione, vivono la realtà africana in modo così disperato, che si rivolgono al loro Dio chiedendo un segno. Mi sembra che al presente questa assenza di una manifestazione diretta di Dio scoraggi i popoli africani.  In Africa molti attendono un segno col quale Dio dica: “Ecco, vi sono vicino”.Nel suo prossimo film, naturalmente ancora il Continente africano.Si intitolerà Africa Fiasco: parte da fatti di cronaca vera e racconta la storia di una nave che doveva scaricare ad Amsterdam materiale tossico letale e invece è stata portata a Abidjan in Costa d'Avorio dove ha causato morti, intossicati e feriti. Così vanno le cose da noi.E come vanno per il cinema?
Il presidente del Chad mi ha chiesto di creare un centro di formazione all'audiovisivo, visto che in Chad sono sparite tutte le sale cinematografiche. Tra qualche mese nella capitale riaprirà dopo vent'anni un cinema proprio con l'anteprima di Un homme qui crie.Se lei dovesse formulare, con una sola parola, il suo grido al mondo per l'Africa, quale parola sarebbe?Amore?