Vecchie facce da cinema che si trasformano in volti di nuovi registi. Agli attori italiani piace passare dietro la macchina da presa, non a caso ogni anno se ne contano molti che hanno già fatto o si apprestano a fare il grande salto. Il Bif&st, puntuale, dà conto del fenomeno all'interno della panoramica che radiografa la nostra produzione recente, e infatti in cartellone non mancano Alessandro Gassman e il suo Razzabastarda, Laura Morante con Ciliegine, Luigi Lo Cascio esordiente con La città ideale, Rolando Ravello con Tutti contro tutti, Paolo Sassanelli con il corto Ammore. Ma cosa spinge verso il grande passo? Solo voglia di sperimentare o reale impellenza di dire qualcosa per immagini oltre che lasciando parlare corpo e voce? Per tutti prova a rispondere Rolando Ravello, che pure sembra il meno indicato a farlo perché regista lo è diventato davvero per caso.

Da attore che aveva scritto una sceneggiatura si è ritrovato dietro la macchina da presa, è così?
Alla regia non pensavo assolutamente. Sono stati Domenico Procacci e Laura Paolucci della Fandango, che ha prodotto il film, a dire che lo dovevo anche dirigere. Ho fatto molta resistenza, suggerito nomi di registi che stimavo, alla fine a convincermi sono state le parole di mia figlia: “Papà, se non accetti rischi di pentirtene per tutta la vita”. Mi sono buttato, e la cosa incredibile è che improvvisamente ho scoperto una dimensione personale che non sapevo di avere. Il primo giorno di riprese avevamo una scena molto complicata, poteva essere il disastro invece dirigere mi è subito apparso come l'atto più naturale del mondo.

Si fa fatica a credere che la trasformazione in regista non fosse già in atto.
E' vero, se mi sono buttato è perché evidentemente non volevo delegare ad altri una storia profondamente mia, ma l'ho capito solo strada facendo. Resto un debuttante però, dubito che sarebbe andato tutto così bene se non avessi avuto la possibilità di circondarmi di persone che conoscevo benissimo e con le quali sapevo di poter stabilire un dialogo costante. Per me fare il regista vuol dire essere aperto alle discussioni e mettersi in dubbi, sebbene alla fine ci si deve assumere la responsabilità delle decisioni finali.

Fa parte della schiera dei molti attori italiani che diventano registi, cosa vi spinge?
Sarebbe bello discuterne tutti assieme in pubblico, sviscerare un argomento che secondo me molto ha a che fare con lo stato in cui si trova il cinema italiano. Si producono troppi film tutti uguali e noi attori fatichiamo a sentirci rappresentati al meglio nelle storie che vedono la luce. Certi personaggi come i poveri del mio film non li vuole raccontare nessuno, ecco perché alla fine l'ho fatto io. Credo che per i miei colleghi sia la stessa cosa, almeno è quello che mi ha detto Alessandro Gassman con il quale mi sono confrontato di recente. Alla fine si tratta di mettere in pratica quella che è una lezione basilare per ogni attore di teatro, cioè muoversi sul palcoscenico cercando sempre di occupare lo spazio vuoto. Ecco, stiamo cercando di occupare uno spazio libero che in questo caso non è fisico ma creativo.

E come è stato dirigere dei colleghi?
Facile, perché conosco il loro linguaggio. Mi sono ricordato del metodo usato con me da Scola durante le riprese del Romanzo di un giovane povero. Il segreto non è lasciare gli interpreti senza conduzione, ma costruire intorno a loro delle gabbie rigide e fare in modo che all'interno di esse si sentano liberi di creare.

Soddisfatto dell'accoglienza da parte di pubblico e critica?
Per quello che riguarda la critica, non mi aspettavo di essere trattato così bene. Dal punto di vista degli incassi invece poteva andare meglio, ma chi ha visto il film in genere lo ha molto amato e questo è l'importante. Non era un'opera facile, parlare di povertà oggi è impopolare. La gente vuole sognare, uscire per un paio di ore dal grigiore della propria esistenza. Capisco il meccanismo, ma penso allo stesso tempo che dobbiamo comunque continuare a produrre film che radiografano la realtà anziché abbellirla. Sono decenni che il nostro immaginario è modulato sulla televisione e il livello medio della cultura si è abbassato in modo inquietante. Basta film fotocopia, bisogna alzare il tiro. Solo un nuovo innalzamento della cultura può di nuovo alimentare il senso civico.