I riflettori della Berlinale si sono accesi sabato sul cinema africano, alla prima della nuova pellicola del regista senegalese Alain Gomis (45). Il suo dramma ambientato a Kinshasa, Congo, realizzato con finanziamenti franco tedeschi, racconta la storia di Félicité (Véro Tshanda Beya Mputo), una donna ai margini della società. "Il mio obiettivo è mostrare che, in ogni situazione della vita, vale la pena lottare per la propria dignità".

Intende dire che il suo dramma è un film ottimista?

È un film che dice sì alla vita. L’ottimismo può rivelarsi anche nei momenti più difficili e drammatici. Se si manifesta, è un dono. E poi, mi piacerebbe che Félicité venisse inteso come un manifesto: abbiamo urgente bisogno di ottimismo nel mondo, in questo momento.

Il suo Aujourd'hui cinque anni fa registrò un grande successo di critica proprio qui, alla Berlinale. Lei vive a Parigi. L’Europa sembra essere il luogo ideale per mostrare il suo cinema.

Sono molto grato per l’opportunità che ho avuto cinque anni fa e ora. Ma non posso non fare presente le enormi difficoltà legate alle restrizioni per la concessioni di visti tra Africa e Europa. Lavorare con l’Europa, se sei africano, è frustrante. I nostri eccezionali attori Véro Tshanda Beya, Gaetan Claudia e Papi Mpaka hanno avuto pesanti problemi per ottenere  i visti. Mi pare che il clima che sta generando Trump ora in America, qui in Europa ci sia già da molto tempo.

È l’ottimismo di cui parla ad aiutarla ad andare avanti a fare film tra Europa e Africa?

Volevamo essere ottimisti e ce l’abbiamo fatta. Ed esserlo non vuol dire essere ingenui. Ma soppesare le difficoltà date in una determinata situazione. Soppesare la realtà. E continuare a costruire. Proprio come Félicité. Proprio come la vita a Kinshasa.

Nel suo film si nota una forte mancanza di luce nelle scene notturne. Perché?

Perché la notte, nelle città africane, è incommensurabilmente più buia che in Occidente. È una notte nera. E per me era fondamentale mostrare, e rispettare, la notte africana senza illuminazione artificiale. Solo se la notte è così scura, si può sentire meglio lo stato emozionale dei protagonisti. Di notte si perdono molti sostegni psicologici.

È vero che la brava protagonista Tshanda Beya non è un’attrice?

Sì. La vita che da' al personaggio di Félicité è la vita che vive ogni giorno a Kinshasa. Se qualcuno si ammala nella Repubblica Democratica del Congo, e non ha soldi, muore.

Nonostante tutte le difficoltà, c’è una generazione nuova di cineasti africani che si stanno facendo strada nel mondo.

Una generazione che fa cinema senza essere mai stata al cinema, perché nelle città africane i cinema non ci sono più. E sì, nonostante le immense difficoltà c’è un’energia nelle grandi città che è straordinaria.