Tra i grandi assenti della competizione per l’Orso d’Oro di Berlino ci sono i film Made in USA. Gli unici (off competition) dagli Stati Uniti sono Vice (L’Uomo nell’Ombra) di Adam McKay, un ritratto dell’ex vice Presidente americano Dick Cheney, con l’istrionico e in odore di Oscar Christian Bale e una straordinaria Amy Adams, e il documentario in prima mondiale Amazing Grace di Alan Elliott su Aretha Franklin.

A distanza di tre anni dalla sua Grande Scommessa McKay ha girato il biopic sui conservatori americani che i liberali di tutto il mondo stavano aspettando. Il film ha già intascato 8 candidature ai Premi Oscar e vinto un Golden Globe.   Incontrato a Berlino Christian Bale dice di Vice non è né un film sui conservatori né sui liberali, ma la semplice, e incredibile storia di un uomo, Dick Cheney, passato nel giro di tre decenni da una vita da operaio del Wyoming a presidente de facto degli Stati Uniti d’America”.

Per il suo magnifico ritratto Bale ammette che "la difficoltà principale del suo ruolo era legata all’ossessione di Cheney per la riservatezza, la segretezza. Cheney ha lasciato "pochissime briciole" biografiche sulla strada della storia, ha sempre cercato di lavorare sullo sfondo. Ricostruire quindi un ritratto biografico in senso classico sarebbe stata un’impresa impossibile. Sono state fatte molte ricerche sul film, ad esempio nei vecchi resoconti dei media, di cui ne ho studiati centinaia. Inoltre ci siamo avvalsi dell’aiuto di giornalisti per condurre interviste ai suoi collaboratori più stretti dagli anni settanta in poi, da Nixon a Reagan, e fino a George W. Bush. Per avvicinarmi all’uomo Cheney ho immaginato le domande che avrei voluto rivolgergli. Soprattutto capire l’origine psicologica di tanta normalità di un marito e padre amorevole, ma diretto responsabile di atrocità in tanti paesi del mondo arabo e di una guerra non etica. Un uomo pieno di contraddizioni, la cui biografia si colloca a metà tra la tragedia comica e quella shakespeariana”.

È più difficile interpretare qualcuno che non piace? "La mia più grande sfida è stata interpretare un personaggio reale“. Quanto ci è voluto ogni giorno sul set per diventare Cheney? “Almeno quattro ore di make up al giorno“. Cosa rende così speciale la biografia di un uomo che in definitiva era un burocrate nell’ombra? “La sua vita è una dichiarazione d’amore all’America. Cheney ama il suo paese. D'altra parte, l'America è sempre stata una terra di contrasti. Grandi ideali sono stati implementati all'ombra oscura della schiavitù e poi della segregazione”.

Nel 2004 ha perso 30 chili per il ruolo in The Machinist, per Cheney, invece, è dovuto ingrassare 30 chili. Una trasformazione sconvolgente. “E rischiosa. Sono a metà dei miei quaranta anni e so che ad un certo punto sentirò le conseguenze. Ho avuto molte difficoltà fisiche per fare questo film. Ma le trasformazioni estreme sono uno strumento importante per me. E d’altra parte questo è il lavoro che ho scelto di fare".

Ci sono persone che dicono che non ci sarebbe un presidente Trump senza Hollywood. “Hollywood ha la colpa di milioni di voti a Trump? Non credo. Hollywood non influenza il mondo, lo riflette“. Reazioni della famiglia Cheney? “Non ancora ricevute. Ma una delle figlie mi segue sui social. È la figlia che ha interrotto i rapporti con il padre dopo il supporto dato da Cheney all’altra figlia diventata parlamentare rappresentante del Wyoming, che per essere eletta ha dovuto rinnegare il supporto ai matrimoni gay. Vuole incontrarmi prima degli Oscar”.