Seppure incantevole non sembra la parola adatta per un ex-carcere di massima sicurezza, Terra Murata incanta. Soprattutto perché Libero De Rienzo​ e i suoi ragazzi ne hanno saputo trarre una location decisamente suggestiva. Qui si è svolto, dal 4 al 6 novembre 2016, un festival decisamente inusuale, una manifestazione che è espressamente non un "concept" ma il seme da cui far germogliare un'idea.

L'idea, condivisa da Libero De Rienzo e il giornalista Federico Pontiggia, è quella di proporre film "in attesa di giudizio" giocando sulla natura della sua misteriosa ambientazione, ovvero di creare una piattaforma in cui film che aspettano di essere distribuiti possano vedere il buio di una sala cinematografica. Ma non solamente attraverso la visione da parte del pubblico, ma soprattutto creando un meccanismo che permetta a produttori e distributori di poter entrare in contatto con questi progetti - come fossero colloqui con i “detenuti” - e magari farli uscire nelle sale. Riabilitare e non reprimere. Restaurare un corretto dialogo tra il cinema, chi lo vende e chi lo fruisce.

Per ora c’è appunto un seme che tra celle, residui degli ultimi prigionieri ospitati e scorci di Procida di infinita suggestione porta il festival a popolarsi di film che racconta di fughe e prigionie, evasioni e detenzioni, reali o spirituali. Ad aprire Artethica è Non essere cattivo, il film postumo di Claudio Caligari con la coppia Alessandro Borghi e Luca Marinelli, l’ultimo canto alle borgate romane del suo più sferzante cantore; e a seguire Man on Wire, il documentario premio Oscar di James Marsh sul Petit che imparò a volare, in equilibrio su una fune, nel bel mezzo dell’America, tra una Torre gemella e l’altra.

Ma soprattutto ad aprire Artethica è la notevole risposta di pubblico dei procidani che ha riempito la sala cinematografica composta di sedie tradizionali e artigianali, brande dove un tempo dormivano i detenuti e posti in piedi come ai vecchi tempi, ritrovando in primis un rapporto con un luogo che Procida sembrava aver dimenticato e che De Rienzo ha riscoperto e reinventato. Anche grazie allo straordinario aiuto di Leo Carbotta, direttore della fotografia in grado di disegnare le luci del carcere con uno stile gotico e iperrealista che pare uscito dal cinema di Bava e Margheriti: un percorso di fuoco che circonda il carcere e costeggia le sentinelle, una parte su cui proiettare Detenuto in attesa di giudizio di Loy - girato proprio a Terra Murata - e le sale nei due piani occupati dalla manifestazione in cui ogni angolo sembra adibito a zona di perlustrazione e scoperta, come un piccolo museo.

In queste sale sono passate anche ospiti importanti del cinema italiano meno allineato: Elio Germano, che ha presentato Alaska di Claudio Cupellini, Claudio Giovannesi, al festival con Fiore, e Stefano Mordini, regista di Pericle il nero. I primi due hanno tenuto sabato una sorta di conferenza stampa irrituale e anti-conformista, nello spirito del festival, per raccontare il bisogno del cinema italiano di evadere dalle proprie gabbie, di trovare spazi distributivi e promozionali che fuggano dalle regole imposte dal mercato e che pare diventeranno sempre più stringenti. “Al cinema italiano - dice Germano - serve un percorso per superare la routine, la lotta all’apparenza e all’omologazione, e per ritrovare la sincerità dell’espressione” e quel percorso si trova però contro una nuova legge cinema che - secondo i presenti - certificherebbe e rinforzerebbe i meccanismi esistenti, darebbe più sicurezze e garanzie produttive.

Ma l’arte, ricorda Germano, è un mezzo per romperle queste sicurezze, per aprire le grate più comode e cercare un modo di esistere e resistere, per riconquistare i luoghi della cultura che lo stato dimentica. Come il carcere di Procida, germe di una piccola rivoluzione partita dal basso e che cerca di coinvolgere sempre più persone (sabato sera, con il Napoli in campo e un vento fortissimo a fischiare tra le finestre del palazzo, il carcere era tutt’altro che spettrale ma pieno di vita, fino a tarda notte per vedere Welcome di Philippe Lioret e L’uomo di Londra di Bela Tarr). Partendo dal luogo come centro da frequentare e vivere per arrivare, si spera presto, a polo di distribuzione e di rilettura dei rapporti consolidati del cinema italiano. Quelli che sempre più spesso lo ingabbiano.