“La crisi ambientale è così profonda da richiedere questo tipo di interdisciplinarietà” esordisce Nicholas De Pencier, regista insieme a Jennifer Baichwal e Edward Burtynsky di Antropocene: L’epoca umana, documentario sull’impronta dell’Uomo sul pianeta in uscita il prossimo 19 settembre, con la voce di Alicia Vikander. “È responsabilità dell’arte” prosegue il regista, intervistato in esclusiva dal Cinematografo, “aprire una conversazione importante e muoverla in avanti, in ogni modo possibile”. E continua: “Questo progetto è una piccola parte dell’equazione, ma è quel che possiamo fare come registi, la nostra parte”.

Antropocene è un viaggio lungo tutto il pianeta, con enorme quantità e qualità di informazioni e immagini. Quanto ha richiesto in termini di documentazione, riprese e strumentazione?

“È il progetto più grande delle nostre vite. Dall’inizio, sapevamo quanto fosse ambizioso. Ma era il minimo in proporzione al tema cui vogliamo rendere giustizia. Ha richiesto cinque anni, tra ricerca delle location, il lavoro degli scienziati dell’Anthropocene Working Group, e le riprese, spesso in posti inaccessibili. Nemmeno i cittadini russi possono andare a Norilsk senza permessi speciali, figurati noi con la telecamera”.

Ci sono parecchi termini tecnici: dal titolo, ‘Antropocene’, ad altri come ‘Antroturbazione’ e ‘Tecnosfera’. Quanto è importante il linguaggio nella salvaguardia del pianeta?

“Incredibilmente importante. Ogni parola è un’idea. Siamo in un momento senza precedenti, una sola specie ha preso completamente il controllo. Ma siamo fuori tempo e fuori spazio massimo, cambiare tutto questo richiede tutto un nuovo modo di pensare. Dobbiamo avere nuove idee, quindi nuove parole, questo sarebbe stato l’obiettivo del progetto e del film. ‘Antropocene’ comunica che l’Uomo plasma la Terra più di tutte le forze naturali combinate. Un po’ come l’asteroide che uccise tutti i dinosauri”.

Il documentario è un’esperienza visiva impressionante, ma è anche profondamente legato all’udito e ai suoni…

“Sono molto contento di quest'affermazione. La filosofia di questo progetto è che non ci siano troppe informazioni via testo, interviste e grafici. Sono importanti, ma Antropocene deve essere una testimonianza dei posti che racconta. Per cui le immagini sono fondamentali, ma anche il lato uditivo e orale, è un modo di visitare quei luoghi attraverso l’emozione. D’altronde, il suono è indispensabile nel cinema: quando i miei figli piccoli vedevano un film dell’orrore, non dicevo loro di coprirsi gli occhi ma di tapparsi le orecchie”.

A proposito, il film prende spesso dei respiri profondi, lasciando spazio a silenzio e contemplazione.

“Raccontare storie in questo modo è difficile, una bella responsabilità e una sfida: perché la narrativa passi attraverso le immagini, occorre renderle più potenti possibile. Sin dall’inizio abbiamo cercato posti che avessero un grande impatto visivo, risonanza e ricchezza visiva, così che il pubblico ne fosse attirato. Se non avessimo riposto la stessa cura, il pubblico avrebbe potuto non capire le proporzioni di ciò che sta succedendo, non avrebbe vissuto un’esperienza così cruda, come se si trovasse lì”.

Si distingue, di solito, tra registi di fiction e registi di documentari. In quest’ultimo caso, come cambia il processo di ideazione, costruzione e realizzazione di un film?

“Personalmente trovo molto interessante che, nell’ascesa del documentario, questo abbia anticipato elementi del cinema di fiction. Ci sono un sacco di riprese a mano libera in più, ora, nella fiction, la tendenza a essere flessibili con il copione, scritturare persone che non sono attori. Tutti elementi affascinanti che vengono sicuramente dalla tradizione del documentario. Come documentarista, e io lo sono, senza dubbio, tanta forza deriva dall’avere un piede nella tradizione del giornalismo, del reportage. Un incredibile potere deriva dalla rappresentazione della realtà e dalla sensazione di verità immediata, non artefatta o sintetizzata. D’altra parte, al contempo, c’è spazio per l’interpretazione creativa, persino per l’astrazione, per raccontare insieme allo spettatore. Penso che nel documentario ci sia un grande spazio per creare, insieme, qualcosa di molto originale e anche molto potente”.