Nessun pentimento. Nove mesi dopo il sì a Paolo Baratta - sì, accetterò l'incarico; sì, a patto che si lavori sulle strutture; sì, purché la Mostra metta in piedi un mercato e riveda il palinsesto - Alberto Barbera non mastica amaro. Si concede solo una comprensibile e diplomatica stanchezza. Ordinaria amministrazione: conti da far quadrare, polemiche da prevenire, opportunità da cogliere, trappole da evitare, grandi nomi e grandi film, fare e disfare, ogni volta e daccapo. Dirigere un festival è “una faticaccia. Devi doparti come un cavallo per non arrivare sfiancato all'appuntamento. Ma di quel sì non mi pento”.
Significa che il gioco è valso la candela?
Significa che le tre condizioni per le quali avevo accettato l'incarico sono state sostanzialmente rispettate.
Vogliamo ricordarle?
La prima riguardava l'ammodernamento delle strutture della Mostra. Il Presidente Baratta ha mantenuto la promessa di rinnovare il parco tecnologico per garantire assoluta qualità alle proiezioni. Inoltre è stato ricoperto per tre quarti il famigerato buco e il rimanente servirà a porre le fondamenta per la costruzione del nuovo Palazzo. La seconda condizione riguardava l'implementazione di un mercato. Finalmente ne avremo uno, con l'Excelsior centro nevralgico delle trattative. Abbiamo raccolto numerose adesioni che fanno ben sperare sul suo funzionamento. La terza puntava invece a fare della Mostra una manifestazione permanente con il varo di un ambizioso laboratorio per giovani talenti. Abbiamo creato la Biennale College For Cinema, una novità assoluta. Funziona così: 15 candidati selezionati tra i tanti che avevano aderito al bando internazionale, soggiorneranno al Lido accompagnati da un produttore e affiancati dai nostri tutor. Al termine di questo periodo di formazione, tre verranno scelti e riceveranno un finanziamento di 150 mila euro a testa per realizzare il loro progetto. In quattro mesi dovranno finire il film, che presenteranno alla Mostra dell'anno prossimo.
Fin qui le note liete.
In verità ci siamo imbattuti in un solo vero problema che non riguarda unicamente la Mostra: la disponibilità delle major americane. Sono finiti i tempi in cui i festival internazionali rappresentavano un'occasione ghiotta per Hollywood. Cannes e Venezia oggi sono guardate con sospetto, considerate un rischio. Si teme l'accoglienza negativa. Senza contare gli esorbitanti costi della trasferta e del cachet delle star. Agli studios conviene organizzare un junket: giornalisti scelti, nessun critico e interviste “promozionali” al cast. Più comodo di così!
E su quei pochi titoli ancora disponibili impazza la guerra tra festival, persino fratricida…
Lasciamo da parte le polemiche. La verità è che non c'è nemmeno tutta questa competizione per accaparrarsi i film. Dobbiamo abbandonare l'idea che un direttore, forte delle sue conoscenze, riesca a ottenere il meglio che c'è. Sono i produttori che decidono. E sono i tempi di lavorazione a far sì che un festival abbia certi film e non altri. Molti titoli che avevamo adocchiato, da quello di Wong Kar-wai al nuovo dei fratelli Coen, semplicemente non erano pronti. Quando lo saranno andranno dove è possibile in quel momento. Tutto qui.
Nemmeno la prossimità di Toronto, che per la prima volta ha preteso anteprime mondiali, ha pesato sul cartellone della Mostra?
Indubbiamente Toronto si è fatto più aggressivo. E, vista anche la vicinanza geografica, finisce per essere una location più gradita alle produzioni americane. Ma Venezia gode di maggiore prestigio.
Capitolo italiani. La scelta di snellire la mostra abolendo la sezione Controcampo ha fatto storcere il nastro a qualcuno.
L'idea di alleggerire il programma era dettata dalla necessità di avere un calendario delle proiezioni finalmente sostenibile. Massimo 5 film al giorno. Per quanto riguarda gli italiani, l'abolizione di Controcampo non significa un minore interesse di Venezia per il nostro cinema. Ma una selezione più attenta. Numeri alla mano avremo tre italiani in concorso e tre nella sezione Orizzonti. Più una serie di documentari. Mi pare una presenza ragionevole.
Nessuna pressione?
Abbiamo lavorato in piena indipendenza. Poi, è chiaro, le polemiche non mancheranno. A partire dalle esclusioni eccellenti.
Gli anni di Muller sono stati caratterizzati dalla forte predilezione per la cinematografia orientale. Questa edizione sembra invece avere un'impronta più global.
Quando decidi di puntare allo scouting, devi monitorare a 360°. Va bene l'estremo oriente, ma ci sono tante altre realtà emergenti che valeva la pena abbracciare. Penso alla cinematografia israeliana e non solo. In programma abbiamo il primo film di una donna prodotto in Arabia Saudita e un corto del Nepal. Senza l'assillo di dover rincorrere i grandi nomi, che pure ci sono, abbiamo potuto ricercare titoli meno altisonanti ma di enorme valore, provenienti da paesi lontani e bisognosi di visibilità.
Anche la scelta dei giurati è stata assai poco ortodossa: musicisti, video artisti e modelle.
Il cinema, grazie alla rivoluzione tecnologica, è diventato affare di tutti. Non è più l'occhio del novecento, ma è ancora un mezzo di comunicazione amato, capace di incrociare linguaggi diversi. Perché allora lasciarlo giudicare solo agli addetti ai lavori e ai critici di professione?
Dovessimo scegliere il tema di Venezia 69?
La crisi, finanziaria e non solo: isolamento, perdita dei valori, fondamentalismo.
Negli ultimi anni al Lido si è verificata una crescente emorragia del pubblico, soprattutto dei giovani. Come riavvicinarli alla Mostra?
E' stato il nostro cruccio fin dall'inizio. Abbiamo ottenuto residenze studentesche a tariffe agevolate, alberghi convenzionati, ristoranti a menù scontato, tessere promozionali per gli under 26 e gli over 60. Da ultimo abbiamo approntato la prima “sala virtuale” del Festival che consentirà ai primi 500 spettatori paganti di vedere da casa in anteprima i film di Orizzonti. In futuro speriamo di poter allargare l'iniziativa anche al Concorso. Si parla tanto di tecnologia. Ogni tanto ci si ricorda anche di usarla.