Abbiamo visto cose che farebbero rivoltare nella tomba padri, figli e nipoti della filosofia. Se due indizi (film) fanno una prova allora a Hollywood 1) hanno riscoperto il piacere della speculazione 2) al momento con scarsi frutti.
Sono passati più di 30 anni da Blade Runner e la science fiction americana sembra ancora avvinghiata agli stessi problemi di allora, solo il pressapochismo sembra nuovo. Gli ultimi arrivati tendono a liquidare con eccessiva disinvoltura (e sospetto ottimismo) questioni controverse e a lungo dibattute nella storia del pensiero. Ci riferiamo a The Host e Oblivion.
Il primo, tratto da un romanzo di Stephenie Meyer e diretto dal declinante Andrew Niccol (dopo Gattaca si è malinconicamente perso), prospetta un futuro in cui creature extraterrestri, simili ad amebe ma spiritualmente assai evolute, prendono possesso dei corpi e della mente degli esseri umani per infondere loro mitezza, rispetto per l'ambiente e trasparenza nei comportamenti (una specie di cura Ludovico radicale e definitiva). Uno degli “ospitanti” però dimostra una volizione e un temperamento tali da imbrigliare la creatura ospitata, pervertendone la natura. Quest'ultima imparerà a scoprire che nelle passioni dell'animo umano – tanto quelle buone, che portano al desiderio di un altro, quanto quelle cattive, che conducono alla sua distruzione - c'è un bene che vale la pena preservare: la libertà. Ci sarebbe abbastanza materiale per un trattato di filosofia morale (il sogno della società perfetta che sfocia nell'incubo totalitario, il conflitto natura/cultura, la coesistenza di due identità distinte in un unico e identico corpo), peccato che il film si disinteressi delle questioni che pone, preferendo ripiegare su un banale dissidio romantico: lei ama lui mentre l'altra - che è in lei - propende invece per l'amico.
Le cose vanno addirittura peggio in Oblivion di Joseph Kosinski (se non l'avete ancora visto non proseguite nella lettura: pericolo spoiler!). Anche qui il futuro è distopico, intelligenze aliene governano il mondo meglio di noi, rivelandosi alla fine però ugualmente odiose e parassitarie. Solo che stavolta l'identità non si sdoppia, raddoppia. Al centro del film il problema del clone (anche per la natura derivativa dell'operazione). Fondamentalmente è un'evoluzione del vecchio e caro androide di dickiana memoria, ma senza il pathos dei suoi romanzi.
L'idea particolarmente sinistra di Oblivion è che il clone non sia necessariamente un male. Anzi. Nel momento in cui nel clone non registriamo solo il trasferimento dell'identico (inteso come puro decalco esteriore) ma anche dell'identitario (che afferisce a un nucleo interiore più profondo), ci siamo inventati un rimedio incredibile alla mortalità già su questa terra: muore uno? Poco male, ecco il clone uguale in tutto e per tutto– stessa memoria, sentimenti, carattere, etc… - pronto a prendere il suo posto.
Colpisce la disinvoltura con cui certe idee vengono propugnate. Qui gli sceneggiatori mischiano empirismo (Locke e Hume) ed eugenetica con una faciloneria d'arresto. E' sparito non solo il senso della tragedia ma persino quello del ridicolo. Il principio d'individuazione, un tempo caro agli americani, può essere barattato a favore della perpetuazione sine die di un identico ambiguamente confuso con l'identità.
A tal proposito Hans Jonas sosteneva che il "chi sono?" è una domanda che “deve provenire dal segreto e può trovare risposta soltanto se la ricerca resta accompagnata dal segreto”. Quel segreto, per Jonas, è l'azzardo che segna l'esistenza di ciascuno di noi nel momento della sua angosciante apertura: “L'artificiale esser noto all'inizio, l'assenza soggettiva del segreto, distrugge la condizione di autentica crescita. [...] In poche parole, il prodotto della clonazione è defraudato in anticipo della libertà, che può prosperare solo sotto la protezione del non sapere. Defraudare volutamente di questa libertà un essere umano che deve ancora nascere è, perciò, un crimine imperdonabile che non si deve commettere neppure un'unica volta”.
Una posizione che il filosofo tedesco sosteneva in un libro di tre decenni fa. Basterebbe riprenderla oggi per smontare sul nascere il più facile entusiasmo bioetico. Agli sceneggiatori hollywoodiani suggeriamo perciò caldamente un ripasso. Perché se è vero che la vita va vissuta in avanti, "per capirla bisogna tornare indietro". Kierkegaard docet.