Al quarto film Roberto Minervini, italiano di Monte Urano che vive a Houston, racconta i “white poor”, i poveri bianchi, quasi tutti disoccupati o tossicodipendenti, parte dalla Louisiana (titolo italiano) e poi si allunga in Texas, dove la realtà è fatta anche di gruppi eversivi paramilitari. “L’idea - dice - è nata dalla mia volontà di addentrarmi nei meandri dell’America in “corto circuito”, dove la comunicazione tra opinione pubblica e istituzioni si è interrotta da anni”.

A chi ti riferisci?

A quella fascia di stati centrali che tagliano l’America in due, dal Nord Dakota, fino alla Louisiana e al Texas. Sentivo la necessità di svolgere un lavoro politicamente rilevante e scorretto, al tempo stesso. Ho voluto dar voce a quelle “persone contro”, agli “altri” (di qui il titolo internazionale, The Other Side), agli arrabbiati, agli impauriti. La paura è la matrice della violenza: penso che l’America di oggi sia un paese terrorizzato, quasi pietrificato.

Il tuo modo di esplorare i chiaroscuri della nostra epoca travalica la natura del documentario. Qual è la tua sensibilità?

Non sono un documentarista puro e non ho mai sognato di esserlo. La fiction - o meglio il processo produttivo proprio di un film di finzione - m’interessa poco. Il mio modo di fare cinema si basa su un linguaggio spontaneo e primordiale. E’ molto personale, tanto che faccio fatica a descriverlo usando le parole. Credo che io e i miei collaboratori più stretti siamo dotati di una “sensibilità collettiva”, che ci permette di lavorare in modo istintivo, senza preoccuparci dei canoni del cinema documentario e di finzione, che riguardano più il prodotto finito (il film), piuttosto che la materia prima (il girato).

Louisiana - The Other Side
Louisiana - The Other Side
Louisiana - The Other Side
Louisiana - The Other Side

Anche in questo caso hai lavorato a stretto contatto con le comunità locali, raccontando storie estreme senza ricorrere alla fiction. Come hai fatto?

Non ho paura di andare a toccare con mano situazioni anche pericolose. Mi rendo conto che lavorare in questo modo non fa per tutti. Difatti, di artisti che rischierebbero la pelle sono rimasti pochi, e nessuno di loro lavora nel cinema. Io però mi sono formato con gente che ha vissuto l’arte come militanza. Ecco, penso che i soggetti dei miei film si fidino di me proprio per il mio coraggio. Perché il coraggio non si finge.