In una pagina memorabile de La roccia di Brighton, Graham Greene indugia sulla dimensione effimera delle memoria visiva, incapace di conservare la precisione fotografica dell'esperienza oltre l'arco di poche ore. Al contrario, la persistenza del ricordo è pressoché illimitata se affidata ad altri fattori. Ho conosciuto Fernaldo esattamente 32 anni fa, all'inizio dell'avventura del Castoro Cinema. Il primo numero non era ancora uscito e lui girava l'Italia alla ricerca di giovani candidati autori di una collana che avrebbe contribuito a cambiare il panorama della critica cinematografica nazionale. Ricordo la sua figura (nobile e austera, la si sarebbe definita in un romanzo ottocentesco) per una somma di tratti peculiari non dissimili da quelli che un caricaturista utilizzerebbe per farne il ritratto: viso risolutamente allungato, folte sopracciglia nere mai addomesticate dalle forbici, folti capelli brizzolati e pettinati all'indietro, una pronunciata stempiatura. Ricordo ancora meglio il tono della sua voce, caldo e profondo, ma capace di divenire sferzante all'occorrenza e disponibile a una contenuta risata, spesso accompagnata da una nota di non dissimulata ironia nei confronti della vittima di turno. La leggenda cresciuta tra i "castoristi" di quegli anni lo voleva spigoloso di carattere e per nulla incline ai compromessi. Lo si descriveva pronto a riscrivere di sana pianta, a tagliare senza pietà, a imporre il rifacimento e, in qualche sporadico caso, a rifiutare senza remissione il lavoro già compiuto. Aneddoti il più delle volte divertenti, raramente davvero terrorizzanti. Esagerati certo, e riconducibili ad una supervisione accurata e autorevole di una collana, quale ci si dovrebbe attendere da qualunque direttore degno di questo nome. Il nostro rapporto fu, per certi versi, reciprocamente paterno e filiale, in ciò favorito forse da una fortuita somiglianza con il mio autentico genitore. Giovane e inesperto (avevo scritto un'unica cosa prima di allora, un quadernetto su Erich von Stroheim che mi aveva spalancato le porte della sua fiducia), altalenavo schizofrenicamente fra l'arroganza del neofita e l'angoscia del principiante. Le sue indicazioni furono essenziali per trovare la difficile strada di quella scrittura "chiara e pepata" che non si stancava mai di raccomandare ai suoi autori. Alla fine, stralciò le inutili due paginette d'introduzione sulla Nouvelle Vague e mi invitò a sostituire o a spiegare l'uso del termine "attanti", desunto dal linguaggio della critica semiologica. Accettai di buon grado il taglio ma feci orecchie da mercante sul consiglio, che per qualche misteriosa ragione non si tramutò in una prevedibile correzione redazionale. Ancora oggi me ne pento: aveva ragione lui, naturalmente. Troppo pigro o distratto per intervenire, l'asperità terminologica è rimasta anche nella versione aggiornata del Truffaut, voluta da Renata Gorgani. Un piccolo neo, forse. Per me, il microscopico segnale del grande debito contratto con un personaggio che ha lasciato un segno nella critica e nell'editoria italiana.