"A Roma all'alba, quando tutti dormono, c'è un uomo che non dorme. Quell'uomo si chiama Giulio Andreotti. Non dorme perché deve lavorare, scrivere libri, fare vita mondana e, in ultima analisi, pregare. Pacato, sornione, imperscrutabile, Andreotti è il potere in Italia da quattro decenni".
Parola, anzi sinossi, di Paolo Sorrentino, in concorso a Cannes - per la terza volta - con il suo quarto film, Il Divo, uno dei numerosi epiteti di Andreotti. Nelle nostre sale dal 28 maggio, domani sulla Croisette, Il Divo nasce "perché da sempre avevo voglia di fare un film su di Andreotti" e cresce scortato dalle osservazioni di due donne illustri, Margaret Thatcher: "Sembrava decisamente contrario ai principi etici" e Oriana Fallaci: "Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza, con nastri di seta, garbo, intelligenza".

Sorrentino, chi è Il Divo?
Il potere, di cui Giulio Andreotti è la quintessenza stessa. Una figura di cui si ha un'idea astratta, con una fisicità affascinante che può essere stilizzata anche da chi non sa designare. La verità su Andreotti? Un obiettivo da penetrare, la sua indecifrabilità rimane tale, persiste fino alla fine: azzardo delle ipotesi, meglio, faccio dei ragionamenti nel regno delle ipotesi. Nei suoi confronti, si hanno manifestazioni e sentimenti analoghi a quelli per Berlusconi: amore e odio, fascinazione e repulsione.

Che penserà Andreotti della premiere a Cannes?
Costante nella sua biografia è l'interesse per il confine di un evento a lui correlato: se rimane nel territorio nazionale, non se ne preoccupa più di tanto, perché intende l'Italia quale cosa sua, se invece travalica le Alpi va su tutte le furie, orgoglioso com'è del suo credito internazionale.

E negare ostinatamente di averti incontrato?
Nell'ipotesi peggiore, attiene alla sua abitudine a mentire, oppure a una strategia consolidata negli anni: negare per tirarsene fuori. L'ha fatto a volte in modo così plateale e infantile da farci credere che siamo tutti stupidi: sotto mentite spoglie, deve avere un complesso di superiorità fortissimo.

Temi le polemiche?
Con tutto il rispetto per i festival italiani, speravo di presentarlo a Cannes: in una cornice internazionale, le polemiche tipicamente nostrane si dileguano, e si vede il film. Da parte mia, non ho voluto provocare, né dividere. Indirettamente, potrebbe aiutare a comprendere il nostro passato e il nostro presente, ma spero che Il Divo venga ricordato innanzitutto come un buon film.

Hai deciso di inquadrare il periodo che va dalla fine del VII Governo Andreotti all'inizio del processo di Palermo: perché?
E' il periodo a cavallo tra la Prima Repubblica, che si sfalda, e la nascita della Seconda, una politica nuova nella forma e vecchia nella sostanza, con tutti i vizi e i difetti della Prima. Due sono i periodi cruciali per Andreotti: il sequestro Moro e gli anni '90. Ho scelto il secondo, anche per opportunità: conseguire una originalità mondana rispetto agli anni '70, che il nostro cinema ha già raccontato.

Ti senti sulla scia di Petri e Rosi?
No, perché sarebbe usurpare un grande tradizione. Poi, perché Il Divo è francamente un film dissimile. Rosi l'ha visto, e mi ha detto: "Mi piace molto, ma con me non c'entra niente".

Portare sullo schermo un uomo vivente non ti spaventava?

Sì, ma poi ho pensato fosse possibile sulla scorta di The Queen, film decisamente ben fatto. A Servillo ho ripetuto quel che avevo dedotto da Frears: la strada non era fare un sosia di Andreotti, ma l'assonanza. Helen Mirren è The Queen, e contemporaneamente se stessa, così Servillo.

Perché questo film ora?

Non mi sento il paladino di un nuovo cinema politico, ma avvertendo così forte la crisi del Paese, rispetto all'invenzione di una storia X, volevo  raccontare qualcosa di urgente: seppur utilizzando astrazioni ed elementi immaginativi, andare giù dritto sulla realtà.