Il modo più ingiusto di accostarsi a un documentario come Sfiorando il muro sarebbe quello di fare la conta degli omissis e le lacune storiche che pure non mancano. Evento speciale della Mostra, il lavoro di Silvia Giralucci e Luca Ricciardi ha il merito anzi di evitare la strada sospetta della ricostruzione, il più delle volte rivelatasi via maestra per nuove e indimostrabili verità di parte, attribuzione di colpe, rivendicazioni e rancori. Qual è il punto allora? Quale l'intenzione profonda che ha spinto questa giornalista padovana a rievocare, un'altra volta ancora, anni di piombo e brigate, processi e violenze bipartisan?
Innanzitutto una motivazione personale: il padre, Graziano Giralucci, venne ucciso il 17 giugno 1974 nella sede dell'MSI di Padova assieme a Giuseppe Mazzola. Furono due delle prime vittime delle BR. Silvia allora aveva tre anni. Sarebbe passato parecchio tempo prima che capisse veramente cosa era avvenuto allora e perchè. Ed è qui che la sua vicenda privata s'intreccia con quella del paese. E' qui che le sue domende, quel desiderio di fare i conti con il passato, ricalcano interrogativi e scheletri nell'armadio di tutta una nazione. La rievocazione è di certo sommaria, serve giusto a fornire una cornice storica al clima di esasperazione e fanatismo politico che si viveva in quegli anni: ed eccolo il fatidico "7 aprile", il grande blitz ordinato dal PM Pietro Calogero per arrestare i vertici di Autonomia Operaia, una decisione che stabiliva di fatto una collusione tra la sinistra extra-parlamentare e il terrorismo rosso; rieccoli Guido Rossa e Aldo Moro, gli scontri di piazza dentro immagini in bianco e nero e gli agguati nelle università; e foto, scritte sui muri, macchine bruciate.
Tutto ciò, unito alla vicenda familiare dell'autrice, potrebbe avallare il sospetto di una lettura da "destra" degli anni di piombo. Non ci sembra. Affiora invece, accanto al resoconto dei crimini della sinistra a mano armata, la volontà di non nascondere le responsabilità dei post-fascisti, i pestaggi e le azioni dimostrative perpetrate dalla galassia della destra, quella a cui apparteneva pure suo padre. Un colpo al cerchio e l'altro alla botte? Non proprio. Onestà intellettuale semmai - riconoscere che la situazione era degenerata per colpa di tutti - e disagio umano - constatare come in un dato momento i più, da una parte e dall'altra, avessero smarrito la capacità di riconoscere la persona accanto all'avversario politico. Nelle immagini girate oggi, nella scena ridefinita dal senno di poi del presente, si palesa l'autentica mira di questo lavoro, più adatto alla tv che al cinema (non solo per una questione di qualità, ma di opportunità e diffusione): nell'incontro con Guido Petter, l'ex partigiano e docente di pedagogia picchiato prima dai fascisti e poi dai comunisti, che infonde a Silvia serenità di giudizio e le insegna quello spirito equanime capace di ricordare "senza rancore"; nell'incontro cordiale, umano, con un reduce a Parigi di Autonomia Operaia; nella partecipazione "distante ("Non mi sento parte di questa cosa", confessa Silvia) alla commemorazione dei "camerati" di fronte alla targa in onore del padre; soprattutto al dialogo, toccante, con Stefania Paternò, vecchia militante dell'MSI che di Graziano Giralucci era amica. Alle parole e agli occhi di questa donna lacerata Silvia affida l'epigrafe più disarmante: "Eravamo come i Ragazzi della via Pal, che stavano giocando gli uni contro gli altri per la conquista del territorio. A un certo punto però quel gioco ci è sfuggito di mano".