I migranti, i rom e ora gli italiani. A Chiara conclude la trilogia di Gioia Tauro in Calabria iniziata dal regista Jonas Carpignano con Mediterranea (2015) e proseguita con A Ciambra (2017).

Miglior film nella sezione Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, dove è stato acclamato dalla critica internazionale e insignito del premio Europa Cinemas Label, A Chiara dal 7 ottobre sarà in sala distribuito da Lucky Red.

“Non avevo intenzione di fare una trilogia- racconta Carpignano durante l’incontro stampa moderato dal critico cinematografico Federico Pontiggia-. Sono sceso a Gioia Tauro la prima volta nel 2010 per fare ricerca sui famosi fatti di Rosarno. Volevo fare un film sul mondo della malavita corrispondente a quello che io ho visto e vissuto in questi anni. Ho iniziato a scrivere la sceneggiatura di questo film nel 2015 mentre stavo facendo la preparazione di A Ciambra”.

Ed è proprio durante la preparazione del suo precedente film che ha trovato la sua protagonista Chiara ovvero Swamy Rotolo. Una quindicenne che improvvisamente si ritrova un padre latitante e che vuole ad ogni costo sapere dove sia e perché è costretto a nascondersi, anche se tutti le dicono:  “meno sai e meglio è”. “Stavo preparando A Ciambra e feci un piccolo casting- racconta-. Ho avuto la fortuna che Swamy si è presentata con sua zia. All’epoca aveva nove anni e dopo averla vista ho subito capito che era lei la protagonista. Da anni conosco bene tutta la sua famiglia e nel tempo sono riuscito ad impastare il personaggio di Chiara con le caratteristiche di Swamy”. Di fatto, al suo fianco nel film, c’è anche gran parte della sua famiglia : le sua sorelle (Grecia e Giorgia Rotolo), suo padre (Claudio) e poi sua mamma e i suoi zii e i suoi cugini. “Ho lavorato bene con loro. Anche i confronti con mia sorella erano ovviamente molto naturali perché tra noi spesso litighiamo. Sul set Jonas ogni giorno veniva con un foglietto accanto a me e mi spiegava cosa dovevo fare. Comunque mi sento di somigliare molto a Chiara”, racconta Swamy. E la sorella Grecia: “Per noi Jonas è come un fratello e ha saputo raccontare perfettamente il rapporto che abbiamo con nostro padre”.

Al paragone del suo film con Il padrino, Carpignano risponde: “Parto sempre dal personaggio e dal suo mondo interiore. Non faccio mai riferimento ad altri film anche se siamo fatti della somma di ciò che guardiamo e quindi penso che a un certo punto tutte le influenze arrivano”. E poi prosegue: “Sono più interessato a capire come le persone arrivano a fare le scelte che fanno e perché decidono di vivere le vite che vivono. Chiara alla fine decide come vuole vivere. Ha la sua bussola e decide dove vuole andare. Per questo la ammiro. In A Ciambra Pio era consapevole del mondo in cui viveva, lei invece non lo è. Qui ho voluto togliere allo spettatore i preconcetti sul mondo della ‘ndrangheta e mettere lo spettatore nei panni di questa giovane quindicenne proprio per vedere tutto dal suo punto di vista e dalla sua angolazione”.

Della sua esperienza e osservazione in prima persona (“questo è il mio mondo, sono i miei amici, non c’è distanza”) Jonas ne ha fatto tesoro, portando sullo schermo qualcosa di inedito rispetto al genere di appartenenza: il Mafia movie. “Rompo tante convenzioni perché sono partito da quello che realmente vedevo. In dieci anni non ho mai visto una sparatoria a Gioia Tauro per cui non l’ho messa. Non è stata una scelta ideologica contro quel modo di fare cinema. I film che raccontano la malavita invece ne sono pieni. Ho visto però dare fuoco alle macchine per intimidazione e infatti nel film l’ho messa. Ho cercato comunque di togliere il lato spettacolare perché ho sempre voluto mantenere il punto di vista della protagonista”.

L’attentato incendiario è una scena centrale. “Quello è il momento in cui tutto cambia per Chiara. Lì è molto preoccupata per suo padre e si chiede cosa stia succedendo tra lui e sua madre. Poi all’improvviso si apre un altro mondo. Ho scelto di fare un unico piano sequenza e realizzarla non è stato facile”. Determinante nella storia anche la battuta del padre: “La chiamano mafia, per noi è sopravvivenza”. “Il mio non è un racconto da sopra, ma da dentro. Cerco di fare capire come alcune persone arrivino a fare determinate scelte. E come giustificano quello che fanno. Qui si tratta di una persona che non vuole rovinare la sua immagine con sua figlia”.

Nel film anche il forte contrasto tra la protezione (la famiglia e lo Stato) e la libertà (la possibilità di scegliere). “E’ difficile ovviamente rompere i legami di sangue e strappare dalla famiglia. Una persona coinvolta in un’attività criminale può essere anche un bravissimo padre. Persone latitanti o arrestate non sono solo quello e possono somigliarci più di quel che pensiamo”.

Infine conclude: “Non parto con un’idea della mia carriera. Non posso dire che ho chiuso la trilogia e che non racconterò più Gioia Tauro. Penso negli anni di aver trovato la mia bussola cinematografica. Ora so come voglio raccontare alcune cose e come orientarmi. Devo solo guardare bene la mappa e decidere dove voglio andare”.