Un personaggio controverso, Hanna Arendt. Filosofa allieva di Heidegger, del quale fu amante appena ventenne, storica, scrittrice e in primo luogo libera pensatrice. Talmente libera da inimicarsi il mondo accademico americano e gli intellettuali ebrei a causa delle sue teorie sulle colpe dei nazisti. Eppure la Arendt era ebrea, e aveva conosciuto sulla propria pelle il dolore dell'espatrio, della prigione, della fuga continua fino all'approdo in America che finì per adottarla. La tipica donna forte, amata da sempre e spesso mostrata da Margarethe Von Trotta, che inevitabilmente ha finito con l'innamorarsene. “Quello verso Hannah Arendt – dichiara la regista al Bif&st - è stato un lento cammino di avvicinamento. Avevo paura ad affrontarne la complessità il pensiero, ma a un certo punto ho sentito che era arrivato il momento per andare al cuore delle sue teorie. La banalità del male, nato seguendo il processo del criminale nazista Eichmann a Gerusalemme, è ancora oggi un testo fondamentale per capire le derive dell'animo umano così come Le origini del totalitarismo lo è per analizzare la genesi di qualsivoglia dittatura”.
Ad accompagnare la regista nel cammino, la consueta musa Barbara Sukowa. Un'interpretazione la sua di quelle che lasciano il segno, tale è l'adesione al personaggio. Un'impressione di fedeltà che si insinua anche in chi non ha mai visto un ritratto della filosofa, perché l'immedesimazione è prima di tutto mentale. Un lavoro di studio durato mesi, raccontato dall'attrice con aria finalmente distesa: “Sono meticolosa, mi piace studiare i personaggi che devo far vivere sullo schermo ma in questo caso ho capito che dovevo andare oltre. Non sapevo nulla di filosofia, mi sono messa a leggere di tutto facendomi aiutare da un professore della Columbia University, ho imparato a giocare a biliardo perché a lei ogni tanto piaceva rilassarsi con questo gioco, ho analizzato a fondo i suoi scritti, le lettere, gli articoli di giornale e parlato con tutti i testimoni ancora in vita. Ne avevo un bisogno interiore. Poi però ai personaggi bisogna dare anche un'anima, e allora deve subentrare qualche altra cosa. L'attore non diventa mai un'altra persona, è impossibile, però può regalare il proprio sentire perché un ruolo scritto diventi vivo. Il risultato finale però è frutto di coincidenze felici, di incontri riusciti tra regista e attori, di uno stato di grazia che resta inesplicabile”.
Margarethe Von Trotta conferma il mistero della riuscita di un'opera, una scommessa che può anche essere perduta. “Quando abbiamo iniziato a occuparci di Hannah Arendt non sapevamo dove saremmo andate a finire. Ci siamo prese per mano senza conoscere la strada. Una vera avventura, soprattutto perché dei suoi lati privati si sapeva molto poco e invece volevo restituire anche la Arendt più nascosta. Il film è anche una grande storia d'amore, quella con il marito Heinrich Blucher, da lei molto amato. Si parla pure dell'amore con Heidegger, che tanto ha influito sulla sua formazione, passato al nazismo. Una ferita mai chiusa nel cuore della filosofa.
Hannah Arendt sarà presto distribuito nelle sale italiane da Ripley's. Un'operazione meritevole e coraggiosa per il tentativo di incidere in un mercato sempre più avvitato sui prodotti commerciali e di rapida consumazione. Sarebbe un peccato non ricevesse la giusta attenzione, in quanto il film non si limita a essere il ritratto della studiosa tedesca ma restituisce perfettamente il sapore di un'epoca e la ricchezza dell'ambiente intellettuale del quale brillava New York a cavallo tra gli anni '50 e '60. Crocevia di scrittori, pensatori, studiosi di ogni parte del mondo. Dove poteva capitare, come alla Arendt, di avere come migliore amica Mary McCarty.