Mai come negli ultimi anni Hollywood ha mostrato forte interesse verso il tema dello schiavismo. Ancora scottante la questione, 150 anni dopo l'approvazione del 13° emendamento (nel 1864 passò al vaglio del Senato). Sorprendente però non è il trend anti-schiavista del recente cinema americano (Lincoln, Django Unchained, The Help e ora 12 Years a Slave), semmai che se ne sia parlato così poco finora. Esiste, è vero, una nutrita filmografia dedicata "ai neri" e al loro ruolo nella vicenda socio-culturale del paese, ma non bisogna fare confusione. Fenomeni che la storia ha sovente sovrapposto, rimangono intimamente diversi: il razzismo è una tara culturale, lo schiavismo una perversione socio-economica e una macchia del diritto (tanto che ci sono state, e ci sono ancora, forme di schiavismo bianco: pensiamo alla tratta delle slave). Hollywood ha riservato loro un trattamento diverso, occupandosi soprattutto del primo. Il sospetto è che, avendo lo schiavismo giocato un ruolo-chiave nell'architettura giuridica e socio-economica della nazione, risulti alquanto indigesto alla retorica del cinema mainstream.
Salvo rare e preziose eccezioni (l'opera di Spike Lee, ad esempio, autentico controcampo all'universo wasp), è possibile in teoria ripensare i tanti titoli sul razzismo - da Nascita di una nazione a Mississippi Burning - come a un'unica Immagine-Tempo, un flashback sulla storia americana, riattivato ogni volta con identica funzione terapeutica.Se le immagini, come affermano gli studi psicoanalitici sul cinema, possiedono davvero il potere di "curare" rielaborando traumi, scacciando fantasmi e quant'altro, allora la rievocazione potrebbe benissimo passare come un antidoto alla rimozione. Sulla qualità della quale però ci sarebbe molto da discutere.
L'archeologia hollywoodiana, lungi dal possedere il carattere della problematicità, tradisce quasi sempre un retropensiero ideologico del tutto o in parte indulgente con la cultura dominante ("Bianco Anglo-Sassone Protestante": Wasp). Dispositivo trasparente (nessuna ambiguità, nessuna complessità, né di messa in scena né di racconto), ideologicamente elementare e moralmente manicheo, l'antirazzismo del cinema mainstream promuove una visione esageratamente polarizzata del fenomeno - bianchi/neri, cattivi/buoni - schermando ogni contraddizione interna.
Il punto è che queste operazioni, anziché suscitare interrogativi fondamentali (perché il razzismo?), offrono risposte banalmente tautologiche (il razzismo è sbagliato), finendo per somigliare a generiche forme di indignazione che, nella migliore delle ipotesi, non servono a nulla, e nella peggiore ci rassicurano sul fatto di non essere cattivi come i fanatici sullo schermo.
Inoltre, la sclerotizzazione dei ruoli, scevra com'è da ogni scivolosissima analisi politica e socio-culturale, finisce per istituzionalizzare come realtà di fatto quella che è (stata) una semplice costruzione ideologica: il potere dei bianchi e la debolezza dei neri.
Il paradigma americano dei diritti e delle libertà, costrutto ideologico di un'industria culturale organica al sistema, non si lascia contraddire al suo interno: fenomeni come quello del razzismo vengono trattati alla stregua di un raffreddore in un organismo sano. E' l'alieno, l'altro da sé che non si lascia assorbire, il negativo di una realtà provvisoriamente duale, in cui due forze opposte, il Bene e il Male, si fronteggiano e una sola vince: la prima, nella quale si incarna l'Ethos dello Stato. Il razzismo non ha bisogno di diagnosi semplicemente perché non si cura. Va respinto, espunto, separato. E' Il diavolo probabilmente. Li avete visto i razzisti sul grande schermo? Ributtanti e senza speranza, seminatori d'odio posseduti dal demone scemo della razza. Malvagi prodotti di una brodaglia tossica di stregoneria e recessi culturali. La morale? C'è il razzismo perché esistono uomini cattivi, mai il contrario. Pochi titoli scavano dentro la formazione dei pregiudizi, si cercano gli esecutori invece di moventi e mandanti. E' Hollywood, e dal suo recinto ideologico non si esce: ci sono vittime e carnefici, c'è un'azione e una reazione, si producono effetti, esperienze di visione massimamente emotive e poco riflessive.
Le cose dovrebbero funzionare diversamente con lo schiavismo. Il fenomeno, non potendo essere circoscritto alla vile prassi di un circoscritto gruppo di bifolchi, intacca l'impianto normativo ed economico dello Stato, smascherando l'arbitrarietà dei suoi fondamenti etici. Faccenda imbarazzante per una potenza obbligata dal suo stesso dominio ad alimentare il mito del proprio primato morale. In effetti l'istituto della schiavitù rimase in vigore in America per quasi un secolo (dal 1776 al 1865), quando in Europa era scomparso quasi del tutto a partire dal X° secolo. Di più: i venerati padri della democrazia stelle e strisce, i mammasantissima della retorica democratica, si dimostrarono sorprendentemente prudenti in materia, trattando il problema come fosse il minore dei mali. Ad esempio, nel suo La democrazia in America (1835), Alexis de Tocqueville, pur esprimendo contrarietà alla schiavitù, riteneva che una società multirazziale senza schiavismo fosse insostenibile, in quanto i pregiudizi nei confronti dei neri sarebbero cresciuti di pari passo con i loro diritti civili. Anche Thomas Jefferson scrisse nel 1820 una lettera a proposito della schiavitù in cui affermava: "Abbiamo preso il lupo per le orecchie, ma non possiamo né tenerlo né lasciarlo andare senza farci del male. Abbiamo la giustizia da una parte, e l'autoconservazione dall'altra". Più delle ritrosie morali tuttavia, contavano le robuste motivazioni economiche di quanti si opponevano all'abolizione della schiavitù.L'istituto rimase per molto tempo l'unico modo legale per procacciarsi manodopera forzata. La tratta interna degli schiavi - quella delle popolazioni provenienti dall'Africa era stata vietata nel 1808 per evitare che la loro presenza in territorio americano costituisse numericamente una minaccia - era diventata la maggiore attività economica negli Stati del Sud nella prima metà dell'ottocento, e gli affari per i trafficanti di schiavi divennero particolarmente floridi all'indomani dell'invenzione della sgranatrice di cotone di Ely Whitney (1794), che rivoluzionò l'industria del cotone e aumentò esponenzialmente la domanda di manodopera nei campi. Senza nulla togliere a quanti erano animati da veri ideali, "altri" erano i fattori decisivi nella disputa tra gli abolizionisti del nord e gli schiavisti del sud. Quest'ultimi, in particolare, lamentavano che l'abolizione dell'istituto avrebbe danneggiato l'economia rurale e favorito oltremodo le industrie del nord. D'altro canto l'offensiva abolizionista portata avanti dai repubblicani non era fomentata solo da considerazioni strettamente idealistiche. In base al dettato costituzionale che consentiva, in sede di rappresentanza, di distribuire i seggi del congresso in base alla popolazione contando anche i 3/5 di quella messa in schiavitù (pur senza diritto di voto), i grandi proprietari terrieri del sud, rappresentati all'epoca perlopiù dal Partito Democratico, avevano una grande influenza politica. Dopo il 1854, il Partito Repubblicano constatò che il "potere schiavista" controllava due dei tre rami del governo federale. Tutto questo per dire come il tema dello schiavismo, implicando controversie di natura economica, politica, giuridica e ovviamente etica, sia difficilmente liquidabile con un'edificante storiella morale. Occorrerebbe invece uno sguardo "sistemico", complesso, decisamente più audace di quello a cui la produzione hollywoodiana ci ha spesso abituati. La domanda è: se anche a Los Angeles ne fossero capaci, avrebbero qualche valido motivo per farlo?
A rileggere la storia del cinema americano verrebbe di dire di no. In oltre cent'anni pochissimi i titoli dedicati, al punto che su 12 anni schiavo si è scatenata una stucchevole campagna pubblicitaria a colpi di "E' il primo film sullo schiavismo". E' una bugia ovviamente (cos'era Spartacus allora? O i più recenti Lincoln e Django?), ma non delle più grosse. A motivo di questo ritardo si possono addurre, come detto, prudenze ideologiche (Hollywood, tolte le esperienze contestatarie dei '60/'70 e il lavoro ai fianchi di una irredimibile colonia d'autori, è sempre stata "organica" al sistema: sia durante la lunga parentesi destrorsa - chiedetevi a chi tenevano Metro Goldwyn Mayer o Warner negli anni d'oro della sua storia - sia dopo, con la svolta liberal, che è poi una forma di conservatorismo alla moda, politicamente corretto), tradizioni discorsive (la grande cinematografia americana ha espresso soprattutto una forte dominante mitico/eroica a scapito dell'approccio storico/sociale), retaggi culturali (un irriducibile orgoglio patriottico, l'ottimismo di fondo, l'insuperabile avversione verso la dialettica e i suoi metodi d'indagine sulla realtà). Manca al pensiero americano, così come è stato declinato dai suoi agitprop dell'intrattenimento, un'abitudine a separare l'immaginario dal dato di realtà e una difficoltà a pensare il mondo indipendentemente dalla volontà dei suoi uomini migliori. Esso (il mondo) è ciò che hanno voluto che fosse, perciò non può essere sbagliato. L'incrollabile fiducia nel potere del singolo è stato indubbiamente il motore propulsore del sistema americano, ma ha finito per sottovalutare e relegare sullo sfondo l'azione coercitiva della struttura. Da qui l'imbarazzo a concepire uno sguardo "d'insieme", articolato e sistemico. In fondo è l'obiezione che Ejzenštejn muoveva a Griffith in merito alla filosofia del montaggio. Campione del montaggio alternato e antesignano di una visione organicista del mondo, poi imperante nel cinema USA (pensiamo alla grande epica western di Ford e Hawks), Griffith possedeva sì il sentimento della complessità, la percezione di una totalità inconcepibile senza le sue parti (e viceversa), ma non un'adeguata concezione del processo (che in Ejzenštejn è essenzialmente il materialismo dialettico), non una visione appropriata delle leggi che lo regolano né delle vere potenze che sgomitano, confliggono e si armonizzano sottotraccia. E' un sistema-mondo chiuso, non emendabile e bloccato, l'approssimazione mitica di un ideale realizzato e di una realtà idealizzata. C'è contraddizione al suo interno? Meglio: potrebbe esserci? Assolutamente no, c'è solo l'altro da sè, il Negativo, l'Ostacolo oltre il quale viene gettata l'ideologia, una momentanea caduta nell'angoscia del duale, da rimuovere senza indugio. Dal piccolo al grande, dal racconto alla storia, l'io e la comunità, confusi come due amanti.
Solo a partire dagli anni '60, anni di contestazione, inizia a farsi strada tra le pieghe della mitopoiesi hollywoodiana l'idea di un malfunzionamento sistemico, di una buccia di banana sotto i tacchi del pensiero vergine. Dura un attimo, l'arco di un decennio, poi si torna a sognare, con i favolosi anni Ottanta e poi i ruggenti Novanta. Le tensioni vengono riassorbite, ma gli strascichi restano: si può credere ancora al Sogno? Il postmodernismo viene proprio per per questo, per dire che no, non si può. Tutto è simulazione, imbroglio. E poi l'11 settembre e poi il Terrore, e poi Obama, ancora la speranza e di nuovo la disillusione, la Crisi. E' a questo punto che ci si volta indietro, a rimirare il passato, tra nostalgiche carezze, amare scoperte e pericolosi revival. E' un agitato panorama culturale (e non solo) quello in cui si muove la Hollywood odierna, forse alla ricerca di un nuovo baricentro. E in fondo anche le scelte fatte dall'Academy negli ultimi anni, scelte in un certo senso incerte e contraddittorie - tra premi agli indie (The Hurt Locker), a B(H)ollywood (quella riveduta e corretta di The Millionaire) e al revisionismo neoclassicista (Argo) - ne danno una qualche misura. Lo squadernamento delle origini, del come eravamo e del dove abbiamo sbagliato, tocca così lo schiavismo, che non è più, solo, una categoria dello Spirito ma anche della Storia. Ed ecco che Lincoln è un film concepibile solo oggi. E così Django. Film nati dalla frammentazione del meccanismo narrativo chiuso, dalla dispersione dell'azione, dalla demolizione degli eroi. Film nati dopo Hollywood, ancora dentro Hollywood, sul crinale del Sogno (non ancora) finito. Film in cui lo sguardo sulla comunità è strabico, disincantato, palesemente fittizio (nell'opera di Tarantino). Uno sguardo che inizia a percepire quella comunità come un prodotto perfettibile della Storia, non la sua incarnazione.
Ecco allora le contorsioni retoriche del Presidente, ancora eroico a suo modo, ma costretto a "venire a patti" con l'altro da sè, convincerlo, persino imbrogliarlo: eroe a misura dei nostri tempi cinicamente esatti, perciò limitato. Ed ecco anche il diaframma tarantiniano tra spettacolo della violenza (parossistica e smaccatamente fasulla; in breve cinematografica) e violenza come inganno, messa in scena, molto meno tollerabile (rivedere la scena in cui l'ariano Di Caprio misura il cranio di uno scheletro di nero per provare scientificamente la sua inferiorità rispetto a quello della razza bianca), perfida allegoria del Grande Imbroglio Nazionale. Opere di rottura e maestose, eppure ancora incerte sulla via del linguaggio, con Tarantino che sceglie di farsi esplodere (in una delle scene finali di Django), piuttosto che abbracciare una visione più complessa del mondo, e Spielberg che cerchia la quadra tra classicismo e cinismo moderno, consegnandoci il rimpiazzo di un eroe antico e l'usura logorroica e politicante del suo splendore.
Le parole non hanno mai avuto tanto peso come nel cinema hollywoodiano di oggi. E' forse l'attestazione di una debolezza intrinseca. L'abuso di uno stratagemma teatrale in carenza di cinema. Le parole sbucano dall'immagine, la travolgono, ne neutralizzano l'ambiguo linguaggio. Monologhi, dialoghi, voci fuori campo, didascalie prima dei titoli di coda. Abbondano anche nell'ultimo pamphlet antischiavista di Hollywood, il predestinato agli Oscar 12 anni schiavo. Il talento e la sensibilità di Steve McQueen, videoartista londinese passato al cinema con il bellissimo Hunger (2008) e il controverso Shame (2011), sposano stavolta una produzione mainstream (dietro c'è la prolifica Plan B di Brad Pitt, anche interprete) e un racconto decisamente più fedele ai canoni hollywoodiani. Ispirandosi al libro di memorie di Solomon Northup, un afroamericano vissuto nell'800, violinista dotato, nato libero a Rhode Island, messo in catene a Washinghton e poi rivenduto in Louisiana da una gang di schiavisti, McQueen in effetti ricalca stilemi e motivi del classico film bianchi vs. neri, infilzandolo però con una rabbia e un pathos inediti: brutale danza di frusta e corpi macerati, sguardi imploranti (ottimi gli attori, a iniziare dal protagonista, Chiwetel Ejiofor) e lacrime.C'è maestria. Un'esattezza metronomica nel battere il tempo dell'effetto e della distanza. Film rabbioso al netto di autentica pietà. Prendiamo la controparte, i latifondisti. E' un'ondata di rigetto quella provocata da Fassbender e Paul Dano, due che potrebbero tranquillamente stare in Mississippi Burning, l'uno nei panni che furono di Ronald Lee Ermey (il sindaco) e l'altro in quelli dell'altrettanto irredimibile sceriffo Stuckey (Gailard Sartain) del film di Alan Parker. Degni compari del Ku Klux Klan, imbevuti d'odio e di pregiudizio, con loro 12 anni schiavo istituisce il paradigma negativo, l'abisso senza ritorno di una macroscopica segnaletica morale. Fassbender è furioso come un demonio, ma il suo personaggio rivela una complessità degna di un villain del cinefumetto. Molto più ambiguo e interessante ci sembra invece la figura impersonata da Benedict Cumberbatch, un proprietario terriero paternalista e non violento, assai più credibile come latifondista del tempo. Ma è una pista che il film abbandona quasi subito, desideroso com'è di alzare il livello di conflittualità e di abominio dei carnefici, fino a raggiungere, nella lunga e insopportabile sequenza in cui Salomon è costretto dal suo padrone a frustare a morte una giovane schiava, il proprio picco emotivo. Scena incriminata da alcuni settori della critica americana, che ha accusato McQueen di aver fatto pornografia della tortura, è a nostro avviso uno dei due momenti migliori di 12 anni schiavo. L'altro è precedente e fa riferimento all'episodio della compravendita di schiavi gestita da un rivoltante Paul Giamatti. Schierati in fila, nudi dalla testa ai piedi, valutati e prezzati in base all'età, il sesso e le condizioni fisiche, è una scena insieme assolutamente realistica (le cronache del tempo sono piene di aneddoti sul modo in cui venivano venduti questi poveri disgraziati) e mostruosamente epifanica: è allora che il cinema prorompe e le immagini, finalmente libere di esprimersi in tutta la loro ineffabile brutalità, trasformano lo schiavismo da discorso a esperienza tangibile. Nella sua oggettività implacabile la scena è raccapricciante non solo perché rende piena testimonianza dell'infamia economica e giuridica dello schiavismo - la conversione ex lege di uomini in merce - ma perché si regge su un'ineludibile ambiguità scopica, per cui lo spettatore è al contempo il soggetto mortificante e l'oggetto mortificato della visione.L'espediente viene ripetuto assai efficacemente nella sequenza della tortura, con McQueen che riprende la scena senza ricorrere al totale, ma attraverso l'uso magistrale del campo-controcampo, mettendo cioè sullo stesso piano, grazie al meccanismo dell'equivalenza visiva, carnefice e vittima. Sono entrambi feticci di esseri umani, meri corpi svuotati di volontà, figuranti provvisoriamente chiamati a ricoprire il ruolo che un arbitrario gioco delle parti ha assegnato loro. Che l'arbitrarietà, l'impossibilità di ancorare l'esistenza umana a un qualche appiglio incrollabile, sia il vero tema di 12 anni schiavo e in fondo la sua modernissima scivolosità, è evidente dall'uso che i vari personaggi del film fanno delle sacre scritture. E' noto come fosse consuetudine tra gli schiavisti presiedere a funzioni religiose cui assistevano anche gli schiavi, seduti nelle ultime file. Questi incontri, come mostra il film, servivano ai padroni (il più delle volte erano loro stessi a improvvisarsi predicatori) a indottrinare gli schiavi sulla bontà della loro condizione, per legittimare moralmente la quale si "servivano" di alcuni brani ad hoc della Bibbia, ovviamente avulsi dal loro contesto e piegati al significato che questi spregiudicati teologi intendevano dar loro. D'altra parte le sacre scritture offrivano agli schiavi la possibilità, del tutto simbolica, di un riscatto: costoro si riconoscevano direttamente interpellati dalla parola di Dio (riscoprendosi così uomini come gli altri) e la utilizzavano per comporre dei canti capaci di alleggerire la loro fatica sui campi e dotarli di una identità comune (la musica spiritual).
Nemmeno il divino insomma può assurgere a fondamento ultimo delle vicende umane. Queste sono regolate da principi continuamente negoziabili - le leggi - che servono di volta in volta ad assicurare un equilibrio sistemico economicamente e socialmente vantaggioso. La credenza che il motore della storia - della storia americana in questo caso - sia la realizzazione degli ideali umani più alti è un'ipotesi senza fondamento. 12 anni schiavo è in questo disincantatamente contemporaneo e più volte insiste sulla confusione terminologica che di volta in volta associa lo schiavo alla proprietà privata (che è un furto vero e proprio in questo film) o a un codice del diritto.
Peccato che questa complessità d'approccio si traduca perlopiù a parole e finisca per risultare eccessivamente predicatoria e didascalica. Sciagurata in tal senso - non fosse altro perché forzatamente introdotta - è la querelle filosofica tra uno schiavista convinto come Fassbender e un abolizionista ingenuo come Brad Pitt che, da produttore, si assicura la parte dell'idealista convinto (canadese, istruito: sic!), colmo di giusti precetti e prodigo di buone intenzioni. Il suo intervento risulterà decisivo per il protagonista e dannoso per la credibilità del film. Deus ex machina salvifico, è il colpo di coda della vecchia retorica hollywoodiana. Logora finché si vuole, ma ancora una volta vincente (dopo Golden Globe, BAFTA, ecc..., probabile arrivi anche l'Oscar).