Non aveva ancora fatto Il cavaliere oscuro - Il ritorno (2012) né Interstellar (2014) che già il Guardian, a firma di Andrew Pulver, se lo chiedeva nel 2010: “Is Christopher Nolan the new Stanley Kubrick?”.

La questione aveva e avrebbe informato dibattiti cinefili e perlustrazioni critiche, da parte sua il prestigioso quotidiano britannico non prendeva posizione, limitandosi ad addurre quattro pro – l’autofinanziamento delle origini; l’assenza di timori per le grandi dimensioni produttive; la frequentazione plurale dei generi; la preservazione dell’identità autoriale all’interno dello studio system – e tre contro – differenze nella quantità e qualità artistica; il coraggio tematico; i traguardi estetici – l’analogia tra il regista americano naturalizzato inglese (1928 – 1999) e il regista inglese-americano (1970 - ).

Il paragone l’aveva accolto, viceversa, lo stesso Nolan, che ai microfoni di EW nel 2013 s’era aperto su influenze, eredità e simmetrie: “Dal punto di vista dello storytelling, dal punto di vista della regia, c’è una cosa che associo a quello che fa Kubrick, la calma. C’è nel suo cinema una calma intrinseca e una fiducia intrinseca nel potere della singola immagine che mi imbarazza nei riguardi del mio stesso lavoro, vale a dire quante diverse inquadrature, quanti diversi effetti sonori, quante differenti cose diamo al pubblico per impressionarlo. Kubrick confida massimamente che una immagine giusta possa spiegare con tutta calma qualcosa agli spettatori”.

E, guardando al prossimo Interstellar, “2001: Odissea nello Spazio è qualcosa di inevitabile. Ma c’è un solo 2001. Cosicché non devi avvicinarti troppo”.

La stessa attrazione-repulsione, ne siamo certi, Nolan l’avrà sperimentata preparando Dunkirk: come non ri-pensare al Formicaio di Orizzonti di gloria (1957), le coreografie di massa di Barry Lyndon (1975) – per tacere dell’inteso e mai realizzato Napoleon – e il nonsense parossistico di Full Metal Jacket (1987)? Come inquadrare la guerra senza fare la guerra non a ma di Kubrick? Ovvero, come arrivare a una pace onorevole tra la creazione ex novo e un antesignano indifferibile?

La risposta era già in Inception, anzi, in Apapaia dei Litfiba: “Si può vincere una guerra in due / E forse anche da solo / E si può estrarre il cuore anche al più nero assassino / Ma è più difficile cambiare un’idea…”.

(Pubblicato sul numero di giugno 2017 della "Rivista del Cinematografo")