Ci sono due specie di attori, quelli che si trasformano e quelli che usano sé stessi per arrivare al personaggio, che sono più intimisti e si servono della loro faccia. Io appartengo a questa seconda categoria. Sono come un’installazione d’arte contemporanea vivente, mutevole. Anche quando interpreto cento volte lo stesso personaggio, non sono mai uguale, perché sono condizionato da quello che accade intorno a me. Non mi trucco: vivo”.

Nel 2021 Vivo è il titolo del brano del cantautore Andrea Laszlo de Simone, dove intima di cogliere il tempo rimasto, per quanto ancora ne arde nel cuore; a questo proposito sembra far fede l’autobiografia, uscita lo stesso anno, di un uomo conosciuto come attore, un po’ meno come cantante e mai, fino ad allora, come scrittore: Alessandro Haber.

Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini), lavoro a quattro mani con il regista e montatore Mirko Capozzoli, è follia, istinto, primordialità, passione. Raccontarsi per Haber non significa nutrire le fantasie dei lettori con avventure di viaggi interminabili e racconti senza tempo. Piuttosto, un riportare la sua verità, composta non solo da omaggi e lodi da parte di pubblico e colleghi, ma soprattutto da imprevedibilità, sconfitte e promesse non mantenute.

Correva l’anno 1947 quando Haber iniziò la sua carriera professionale nel grottesco e satirico film di Marco Bellocchio, La Cina è vicina. Ma il libro, di oltre quattrocento pagine, dedica fin da subito spazio alla sua infanzia. Nato a Bologna nel 1947, si trasferisce a Tel Aviv, luogo di profumi e ricordi nel quale porre in memoria la favola dei primi anni di vita e cosmo troppo estraneo e straniero per farci ritorno in età adulta.

A nove anni, quel bambino impertinente, torna in Italia e decide di essere un attore.

In tutto il racconto l’ardente passione per il suo mestiere straripa tra le pagine e avvolge come un’onda che si scaglia sulla sabbia lasciando quella dolce e sonora schiuma bianca.

Il sogno americano, tra star di Hollywood, si frantuma più e più volte per la non conoscenza della lingua inglese e così, come per il Fabietto di È stata la mano di Dio, Roma si tramuta nel suo miglior palcoscenico. Si apre il sipario e Alessandro Haber calca i migliori set cinematografici, nonché i celebri teatri di tutta Italia, unico spazio di libertà.

La questione su cui si basa per far conoscere sé stesso – oltre a un minuzioso e dettagliato elenco di tutti gli artisti e registi con cui ha avuto l’onore di collaborare, tra cui Nanni Moretti, Giuseppe Tornatore, Mario Monicelli, Pupi Avati, Carmelo Bene, Gigi Proietti e Paolo Taviani – è il rapporto: con sua madre, con suo padre, con l’amore, con la sessualità, con la figlia, con la professione, con la droga e con la paura. Non retorica o frasi di circostanza, ma l’esuberanza di vivere un’esistenza piena in ogni suo angolo, affinché anche il più appuntito di essi possa smussarsi e incastrarsi perfettamente con la sua personalità.

Non sono mai stato un attore rassicurante e non voglio esserlo”. Esprime le sue idee, se ne frega del politically correct; rutta, sputa e mangia nel piatto degli altri. Tradisce e non se ne vergogna, non segue la strada della diplomazia e dei canoni imposti. Così come il Calibano di cui veste i panni nell’adattamento di Carlo Cecchi, si trasforma in un mostro ripugnante schiavo del suo unico innamoramento: l’essere attore.

Nel 1995 Haberrante è il suo primo album musicale per l'etichetta Hobo. La prima traccia La valigia dell’attore, poesia potente ed estremamente toccante, è una dichiarazione d’amore per il teatro e per il mestiere di chi con anima e corpo diventa un tutt’uno con lo spettatore. De Gregori componeva così per lui: “Eccomi qua, sono venuto a vedere lo strano effetto che fa. La mia faccia nei vostri occhi e quanta gente ci sta”. E Alessandro Haber lo cantava.