Orson Welles, la bellezza dell’inganno. Titola così la Rivista del Cinematografo di maggio (da domani in edicola), nel lungo servizio dedicato al maestro americano, di cui ricorre il centenario della nascita. Personalità ingombrante, artista vulcanico, intellettuale contraddittorio, Welles ha fatto della propria vita un’estensione della propria arte, camuffando spesso l’una nell’altra, in barba a ogni giudizio morale, nel nome di un sublime illusionismo.

L’affabulazione, il bluff, il piacere di raccontare, l’esuberanza stilistica, sono stati quel “pieno” e quel “troppo” da esibire ora come volgare mercanzia (nella critica feroce a Hollywood e ai suoi feticci) ora come il tutto – la superficie e (anzi, è) la profondità - di una verità puramente estetica. Questo continuo giocare con le forme e i meccanismi illusori dello spettacolo non deve però portare a fraintendimenti: anziché denunciare la vanità dell’arte, sono questi stessi trucchi secondo Welles a dare un senso alla vita.

Chi cercasse nelle opere, negli scritti e nelle dichiarazioni che Orson Welles si è lasciato dietro, il grimaldello per l’enigma – scrive RdC - troverebbe solo una chiave che apre una porta dietro la quale di nasconde un’altra porta. Una chiave come quella mostrata in dettaglio in F for Fake, di cui Welles medesimo dice: “Questa chiave non vuole essere simbolo di niente”. Eppure continuiamo a cercarla. A cent’anni dalla nascita (6 maggio 1915 a Kenosha) di uno dei più grandi registi americani di sempre, ci sono scatole che devono ancora essere aperte. Come quella del mago che non abbia ancora finito il suo spettacolo. L’incanto di Welles, la malia che ci tieni avvinghiati al suo cinema come al canto della sirena, non è sortilegio, ma rinnovato stupore per la performance di cui è capace, l’inganno ben riuscito. Non è stato un mago, come pure più volte venne soprannominato, ma un attore che bene ha interpretato la parte del mago.

Di quanti trucchi è lastricata la sua strada, personale e professionale! L’ultimo in ordine di tempo è il ritrovamento di un film che si riteneva perduto, Too Much Johnson, rinvenuto in un magazzino di Pordenone nell’estate del 2008. Welles aveva sempre sostenuto che quel lavoro, il primo per il cinema, datato 1938, era andato distrutto nell’incendio che aveva colpito la sua Villa di Madrid insieme al Don Quixote. Ora, alla luce di questo sorprendente rinvenimento, c’è chi dubita che quest’incendio sia mai realmente avvenuto.

Too Much Johnson è l’unica slapstick comedy wellesiana, genere che non pareva rientrare nel suo ventaglio espressivo, ed è anche il solo film muto, seppure girato nel ’38, ovvero in piena età dell’oro del sonoro (Welles non amava le mode hollywoodiane già allora). E’ anche l’anello mancante, perché si ricongiunge idealmente all’ultimo, F for Fake – dove esordiva definendosi “un ciarlatano” - e disegna una parabola perfetta, il compiuto destino di uno splendido bugiardo. In mezzo ci sarebbero state le invasioni marziane via radio, il rebus Foster Kane, le ombre dal passato di Arkadin, i tradimenti della Signora di Shanghai, gli inganni di Quinlan, i falsari del mondo dell’arte, gli artisti, i più bugiardi di tutti. Opacità voluta, raddoppiata sul piano visivo dove il grandangolo distorce, la plongée schiaccia, il primo piano deforma, il make-up maschera, il piano sequenza sovrappone prospettive diverse all’interno dello stesso quadro. Abitare il suo cinema significa inoltrarsi nella stanza degli specchi de La signora di Shanghai.

L’apoteosi è naturalmente F for Fake, mockumentary ante litteram, vertiginoso gioco di traslitterazioni espressive e semantiche, mosaico eterogeneo di tessere polivalenti, dove tutto magicamente si incastra pur non combaciando: parti originali e non originali, persone vere e personaggi inventati, autenticazioni e contraffazioni, scampoli di verità e altri inganni. Welles spinge l’arte della menzogna là dove non c’è ritorno, liquidando una volta per tutte l’annosa questione del referente e dell’originale in luogo di un’autonomia creativa totale, sigillo non della menzogna dell’arte, ma della sua più intima verità.

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