Lontano dai clamori, le prime pagine, le beghe e le isterie dei grandi festival internazionali, tranquillamente appartato in una piccola sala storica di Roma, la Trevi, alle spalle della famosa Fontana, il XXI Tertio Millennio Film Fest (12- 16 dicembre) si è saputo ritagliare un posto speciale tra le tante kermesse cinematografiche sparse sulla Penisola.

Se fino a ieri si trattava dell’unica manifestazione cinematografica italiana patrocinata dalla Santa Sede (tramite i due dicasteri più vicini al settore, la Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede e il Pontificio Consiglio della Cultura), da tre anni il festival organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo si è dotato di un “board” organizzativo interreligioso: cattolici e protestanti (attraverso FEdS, Signis e Interfilm) hanno lavorato insieme ad ebrei (del Centro Culturale Ebraico Il Pitigliani) e musulmani (del Coreis) nella definizione di una proposta cinematografica capace di mettere in comunicazione mondi all’apparenza distanti come quelli rappresentati dalle tre religioni abramitiche.

Sui temi della ricerca di Dio, della pace tra i popoli e della donna sono sfilati film provenienti da tutto il mondo, di autori affermati e di esordienti, dal taglio ora drammatico ora leggero, spesso accompagnati dai loro autori: personalità come i Dardenne o Andrej Končalovskij sono stati i grandi ospiti della scorsa edizione.

Quest’anno il festival ha fatto un ulteriore salto di qualità con l’introduzione di un concorso tra opere inedite in Italia e di una giuria interreligiosa (formata da mons. Perazzolo della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, mons. Milani, Presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, Tiago Branchini dell’Associazione Italiana Protestanti Cinema Roberto Sbaffi, Sira Fatucci del Pitigliani e Yahya Zanolo del Coreis) chiamata a scegliere quella che meglio di ogni altra ha saputo incarnare i valori del festival, declinandone in una forma artistica alta il tema portante. Quest’anno erano le migrazioni (il sottotitolo del festival recitava E’ tempo di migrare – Memoria, identità, relazione), in una rilettura più ampia del fenomeno, ispirata ma non costretta dalla cronaca di questi anni, secondo il presupposto ricordato a più riprese da mons. Davide Milani che “l’uomo nasce migrante, come insegna anche la Bibbia”.

E allora “a migrare”, a lasciare la terra delle proprie sicurezze per rimettersi in gioco un’altra volta, altrove, siamo tutti, alla ricerca del nostro posto nel mondo, lungo un continuo cammino di trasformazione che è morire e rinascere continuamente. L’essere umano è (in) continuo movimento, e il cinema, immagine in movimento, è il suo speculum perfetto. Le sfide identitarie poste dai grandi flussi migratori sono altrettante opportunità di ridefinire chi siamo secondo un criterio di verità perfettibile. La memoria, la storia di chi ci ha preceduti mettendosi in cammino prima di noi, è luce per non smarrirsi in questo viaggio, dove le paure rischiano spesso di tramutarsi in chiusure fatali tanto per quelli che restano fuori quanto per coloro che decidono di trincerarsi dentro. Riconoscere di essere stati a nostra volta migranti significa riconoscersi nell'altro che ne rivendica il diritto. Memoria, identità, relazione. Ecco il circolo (im)perfetto del dialogo che Tertio Millennio ha cercato di rintracciare nei nove film in gara. Disparati per stile, argomento, sensibilità, film italiani (Figli di Abramo di Simone Pizzi e Cristina – Storia di una malattia di Silvia Chiodin), belgi (Choeurs en exil di di Nathalie Rossetti e Turi Finocchiaro e La part sauvage di Guérin van de Vorst), tedeschi (Krieg di Rick Ostermann), israeliani (The Testament di Amichai Greenberg) canadesi (Juggernaut di Daniel DiMarco), indiani (Walking with the Wind di Praveen Morchhale), persino samoani (One Thousand Ropes di Tusi Tamasese).

Film confessionali? Tutt’altro: i temi del fondamentalismo religioso, della guerra al terrore e delle sue conseguenze, dell’integrazione, dei genocidi e dei negazionismi, sono caldissimi, provocatori, poco pacificatori. Chiedere ai musulmani di confrontarsi con il fenomeno della jihad in Europa (raccontato dall’applauditissimo La part sauvage) e agli ebrei di riflettere sulla dolorosa e non sempre pacifica memoria della Shoah (motivo di The Testament) non era banale. Sarebbe stato interessante sedersi almeno una volta al tavolo della giuria per assistere alla discussione suscitata dai film. Alla fine, nella serata di premiazione tenuta a battesimo in Filmoteca Vaticana dal Prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede Dario E. Viganò, condotta da Francesca Fialdini e impreziosita da uno splendido monologo sull’anima di un inedito Giacomo Poretti, a vincere è stato l’indiano Walking with the Wind  “per aver saputo tratteggiare con delicatezza e grande umanità – si legge nella motivazione - una storia semplice e universale: il percorso di crescita del bambino protagonista, impegnato nella ricerca di qualcuno che aggiusti la sedia rotta dell’amico, richiamo a quello spirito di solidarietà e al desiderio di riparazione di cui tutte le nostre comunità avvertono oggi il bisogno”. È significativo che in un’epoca dominata dalle contrapposizioni e dai dogmi siano ancora una volta i bambini a prendere per mano gli adulti, a rischiarare l’orizzonte con l’innocenza del loro sguardo. Ed è altrettanto significativo che la giuria abbia voluto assegnare anche una menzione speciale a The Testament (“per la capacità di raccontare una storia complessa, dai risvolti talvolta sorprendenti, con linguaggio efficace e tratto incisivo. Il film propone un percorso a cavallo tra memoria e identità mettendo in luce, a partire dalla vicenda personale del protagonista, il difficile e talvolta doloroso cammino per la verità”), ovvero al film che, forse meglio di ogni altro, ha posto con chiarezza la questione della (autenticità della) memoria – pure se enorme e tragica come quella della Shoah - come dirimente il conflitto tra verità contrapposte.

La memoria, intesa anche come resistenza all’oblio, era il tema di un altro bellissimo film di Tertio Millennio, Choeurs en exil di Turi Finocchiaro e Nathalie Rossetti, che hanno riacceso i riflettori sul genocidio armeno attraverso la vicenda di due musicisti della diaspora, Aram e Virginia Kerovpian, maestri del canto modale, un’arte particolarissima della tradizione armena. I Kerovpian hanno accompagnato i due registi belgi al festival, esibendosi dal vivo in una serata particolarmente intensa in Filmoteca Vaticana. Filmoteca che ha recuperato quest’anno una legittima centralità all’interno del festival: questa è la sala in cui Papa Giovanni Paolo II era solito ritirarsi per riconciliarsi con la sua antica e inguaribile cinefilia, lo stesso Giovanni Paolo II la cui lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente ha ispirato la nascita del festival.

Tra i momenti salienti della kermesse val la pena ricordare anche la serata di apertura in presenza del maestro francese Robert Guediguian e del suo La villa, film che guarda al dramma dell’immigrazione con l’occhio della borghesia marsigliese. Guediguian, di origini armene, ha poi voluto partecipare all’evento in Vaticano con i Kerovpian, con i quali si è ripromesso di rivedersi presto in futuro. Una delle peculiarità del festival è proprio quella di favorire l’incontro tra artisti, tra artisti e pubblico, in un clima di semplice e spontanea convivialità. È successo anche in occasione del secondo evento speciale del festival, la proiezione di Hannah di Andrea Pallaoro, cui hanno assistito, insieme al regista italiano di stanza a Los Angeles, altri giovanissimi talenti del nostro cinema come Piero Messina e Toni Trupia.

È lo spirito che ha animato anche gli RdC Awards, la serata di gala del festival condotta da Fabio Falzone, quella dedicata ai premi della Rivista del Cinematografo (la rivista edita dalla Fondazione Ente dello Spettacolo): da Jonas Carpignano (premiato da Gianni Riotta per A ciambra) a Serena Rossi (protagonista insieme a Pivio e Aldo De Scalzi di una tambureggiante performance sulle note di Ammore e malavita dei Manetti Bros., premiato doppiamente per la colonna sonora e per l’interpretazione canora dell’attrice napoletana), da Francesco Patierno a Lino Guanciale (anche lui doppio riconoscimento: per I peggiori di Vincenzo Alfieri e per la fiction La porta rossa), è stata più una festa che una cerimonia, una rimpatriata tra vecchi amici. Con due novità rispetto al passato: un contest per cortometraggi (A corto d’identità) ispirato ai temi del festival e il premio Opera prima assegnato direttamente dai lettori della Rivista del Cinematografo (andato a I peggiori) Due di loro sono state invitate a partecipare alla serata. Come ospiti d’onore.