The Mountain

2/5
Rick Alverson intrappola l'utopia del sogno americano in un film dall'incedere... lobotomizzante. Di grande rigore (e noia), in Concorso

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USA 2018
Nell'America degli anni Cinquanta, un giovane introverso si unisce a un famoso lobotomista che promuove la propria procedura, la cui validità è stata da poco smentita. Durante le visite agli ospedali psichiatrici, il giovane comincia a identificarsi con i pazienti, in particolare con la figlia di un carismatico leader del nascente movimento New Age nelle regioni dell'Ovest.
SCHEDA FILM

Regia: Rick Alverson

Attori: Tye Sheridan - Andy, Jeff Goldblum - Dr. Wallace Fiennes, Hannah Gross - Susan, Denis Lavant - Jack, Udo Kier - Frederick, Danielle Smith - Nurse

Sceneggiatura: Colm O'Leary, Rick Alverson, Dustin Guy Defa

Fotografia: Lorenzo Hagerman

Montaggio: Rick Alverson, Michael Taylor (IV)

Scenografia: Jacqueline Abrahams

Arredamento: Alexander Linde

Costumi: Elizabeth Warn

Effetti: Alex Noble

Suono: Gene Park

Durata: 106

Colore: C

Genere: DRAMMATICO

Produzione: ALLISON ROSE CARTER, SARA MURPHY, RYAN ZACARIAS

NOTE
- IN CONCORSO, ALLA 75. MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2018).
CRITICA
"Delusione completa (...) per 'The Mountain' di Rick Alverson, esasperante ricostruzione a base di primi piani e inquadrature fisse del viaggio di un dottore specializzato in piccole «lobotomie» per sedare i malati di mente accompagnato da un giovane orfano che immortala suoi pazienti, forse metafora del cinema che blocca la vita (ricordate «la morte al lavoro») più probabilmente inutile exploit di narcisismo autoriale." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 31 agosto 2018)

"'The Mountain', opera prima dell'americano Alverson, è un caso curioso di film dalle grandi potenzialità completamente rovinato dall'autore stesso. (...) Sembra (...) evidente il talento visivo del regista, che però strafà da subito, con la prima inquadratura al ralenti su una voce fuori campo, e prosegue con estetismo stucchevole, estetizzando le immagini dei malati di mente in insopportabili tableaux vivants, con ovvi riferimenti fotografici e pittorici (Edward Hopper, e ti pareva). Ogni dubbio si risolve nel prosieguo, quando tutto prende una via delirante (...) e si fa strada una sempre più esplicita volontà di cercare l'Arte e la Filosofia. Trovando, in ultima istanza, il Kitsch." (Emiliano Morreale, 'La Repubblica', 31 agosto 2018)

"Sconfina nel cinema europeo l'americano Rick Alverson il cui «The Mountain», pur riferendosi alla pratica della lobotomia utilizzata in psichiatria negli Anni 50, si presenta come una surreale tragicommedia nello stile di certo cinema scandinavo. Per rigoroso senso dell'inquadratura il film è apprezzabile, ma il troppo insistito artificio compositivo crea uggia; e l'emozione sarebbe assente non fosse per l'onesta mestizia di sguardo del protagonista Tye Sheridan." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 31 agosto 2018)

"America anni Cinquanta, quella patinata e «normata» del Make America Great Again. Non è però solo il «vintage» di una nostalgia per qualcosa mai conosciuto che ha fatto scegliere questa ambientazione a Rick Alverson per il suo 'The Mountain' (...). È che il periodo e la storia che il regista racconta sono come ormai spesso accade quando si guarda al passato proiettati sul presente, l'America trumpista retrograda e sfacciatamente bigotta, omofoba e razzista. (...) L'ispirazione viene dalla figura del neurologo Walter Freeman (interpretato da Jeff Goldblum) che ha lobotomizzato Rosemary Kennedy, ma al di là del documento storico quello su cui sembra puntare il regista - conosciuto nei circuiti più indipendenti con 'The Comedy e Entertainment' - è la violenza diffusa nell'intera società dell'epoca, caratterizzata da una decisa divisione di gender, i cui i rituali sono diventati la norma del quotidiano. Girato in 4:3, formato che quasi imprigiona i personaggi, inchiodandoli come le regole sociali, il film di Alverson prova a guardare dentro quelle che sono le logiche di un controllo esercitato in nome del progresso (o della democrazia). (...) È il sogno americano, siamo sempre tra quelle casette perfette di vestiti, giardini curati, fantasie catodiche (o catatoniche?) - ricordate il Todd Haynes di 'Carol' o prima ancora di 'Lontano dal Paradiso'? Alverson si pone come obiettivo una corrispondenza tra la narrazione e le sue immagini che richiede anche un riposizionamento dello spettatore. Alla drammaturgia preferisce la musica, l'allucinazione di geometrie senza punti di fuga, lo spaesamento dello sguardo piuttosto che la sua accondiscendenza. Chiede di osservare nelle pieghe, che in tempi di retorica (e pretenziosità) è una bella scommessa." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 31 agosto 2018)