Amy - The Girl Behind the Name

- Regia:
- Attori: - Se stessa (immagini di repertorio), - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stessa, - Se stesso, - Se stessa, - Se stessa, - Se stessa, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso, - Se stesso
- Musiche: Antônio Pinto
- Montaggio: Chris King
- Durata: 123'
- Colore: C
- Genere: BIOGRAFICO, DOCUMENTARIO, MUSICALE
- Produzione: KRISHWERKZ ENTERTAINMENT, PLAYMAKER FILMS, UNIVERSAL MUSIC
- Distribuzione: NEXO DIGITAL E GOOD FILMS
- Data uscita 15 Settembre 2015
TRAILER
RECENSIONE
Amy Winehouse, chi era costei? Finita nel Club 27, ovvero morta a 27 anni come Kurt Cobain, e tante altre anime dannate del rock, non era però una cantante rock: era jazz, ma il rock, l’autodistruzione e la dissoluzione del rock, la divorava da dentro. Il suo percorso artistico, esistenziale e, sì, mortale lo ricostruisce con ottimo materiale d’archivio, accesso totale a testimonianze, esibizioni e registrazioni quell’Asif Kapadia che già aveva messo davanti alla camera (ardente) il genio di Ayrton Senna.
Già fuori Concorso a Cannes, poi record d’incassi negli USA, Amy fa venire i brividi: non per la forma cinematografica, che si bea in lungo e in largo dello smisurato bacino da cui può attingere il racconto e poco più, piuttosto per la storia, la storia di Amy, ragazza ebrea di Londra nord, un padre assente, una madre che rimproverava di essere troppo soft e, lo dice Tony Bennett, c’è da credergli, un talento jazz, non quello intellò, che l’avrebbe accostata a Ella Fitzgerald e Billie Holiday.
Invece no, invece l’infanzia disturbata, la bulimia non curata, e poi la droga, l’alcool, e ancora l’eroina, il crack e la cocaina, e ancora, e ancora, sino a spolpare, snervare e dissolvere un fisico minuto, i dentoni equini e quel sorriso che tutto poteva e quasi nulla si sarebbe concesso.
Se n’è andata, Back to Black, lasciando dietro la piccola grande donna che era, l’amore tossico per Blake Fielder, per cui si tatuò un taschino sul cuore e la scritta Blake, e un padre, Mitch, che l’abbandonò piccola e, verrebbe da dire, la sfruttò da grande: eppure, “lei avrebbe baciato per terra dove metteva il piede”. Il padre s’è scagliato contro il film, ha richiesto cambiamenti e minacciato di adire a vie legali: facesse come gli pare.
Non ce ne frega niente di lui, lui che portò la troupe di un reality a riprendere la figlia mentre lei cercava per l’ultima volta di tenere insieme i pezzi: poi Belgrado, l’incapacità di cantare e vivere, la fine. E quella strana cosa che, quando la senti oggi, ti piglia lo stomaco, e non se ne va. Nemmeno al rehab: Amy per sempre.
NOTE
- OSCAR 2016 COME MIGLIOR DOCUMENTARIO.
CRITICA
"A volte accade che un documentario superi in commozione la più toccante delle fiction. È avvenuto a Cannes, dove (...) 'Amy' di Asif Kapadia ha mostrato un ritratto di Amy Winehouse davvero struggente, che risarcisce - almeno in parte - la giovane regina del soul (morta a ventisette anni per abuso di alcol e droghe) delle volgari aggressioni di tabloid, televisioni e comici che hanno speculato sul suo dolore. La storia di Amy è ripercorsa mediante una grande quantità di materiale di repertorio, assemblato con bravura dal regista anglo-indiano. Dribblando la retorica dell'artista maledetto, ne esce il ritratto di una ragazzina fragile, dall'assurda acconciatura e dalle gambe da trampoliere, che tanti facevano a gara per sfruttare (...)."(Roberto Nepoti, 'La Repubblica', 17 maggio 2015)
"Uno degli aspetti più inquietanti di 'Amy', (...) è l'ambivalenza fra talento e manipolazione. Il vero dramma di Amy Winehouse (...) non è tanto la fine (...) quanto l'estenuante battaglia per difendere la propria identità. Il documentario di Asif Kapadia è per un verso il ritratto di una dissoluzione, ma alza anche il velo su una ragazza che viveva due vite parallele: lo smacco di non uscire da alcol e droga e la pretesa di una vita ordinaria. (...) Il biopic di Kapadia (...) mette in luce l'autonomia luciferina di Amy, la sua autoironia. In tanti fotogrammi è bellissima, in altri, con quel taglio british che l'ha consegnata ai posteri come un fumetto, è comicissima. In altre parti ancora è devastata invece dalla pressione di media e paparazzi. (...) Anche i fans più preparati, rimarranno sorpresi dalla ricchezza del materiale, che Universal Music Uk e il manager di Amy, Nick Shymansky, hanno consegnato al regista. Si rimane colpiti proprio dall'intermittenza fra spettacolo vero e proprio, le canzoni per dirne una, e la bulimia o la generosità, dipende ai punti di vista, nel farsi riprendere a ogni ora del giorno e della notte. (...) 'Amy' fa vedere, anche intuire, che la cantante più brava degli ultimi vent'anni sapeva esattamente chi era, cosa trasmetteva al pubblico ma anche che non era affatto intenzionata a essere teleguidata. Manipolata, appunto. (...) Non si capisce bene, nel film, proprio perché siamo abituati a leggere la morte di Amy come una tragedia annunciata, chi abbia la responsabilità di non averla fermata in tempo. Fa tenerezza vedere la Amy post adolescente che straripa energia e buon umore. Ci hanno tramandato quella spenta e confusa degli ultimi mesi. Ora abbiamo l'opportunità di restituirle un pensiero gentile, non per come cantava per com'era bella sull'orlo del crepaccio." (Renato Tortarolo, 'Il Secolo XIX', 27 agosto 2015)