Ritroviamo Mick Taylor (John Jarratt) dove l'avevamo lasciato. A bordo del suo furgone mezzo scassato, il pedale pigiato sull'acceleratore, lo psicopatico corre lungo l'outback australiano pronto a lasciarsi dietro un'interminabile scia di sangue. Il cacciatore di turisti non è pago, e non lo è nemmeno il talentuoso Grag McLean che ne riprende le esecuzioni nel sequel del suo fortunatissimo Wolf Creek.

Ispirato alle gesta efferrate di Ivan Milat (serial killer in galera da 20 anni per l'omicidio di sette saccopelisti), questo numero due supera per virtuosismo, tensione e raccapriccio il precedente, regalando ai fan dell'horror una vera e propria delizia, indigesta d'altra parte per non aficionados e deboli di stomaco.

Punto di forza dell'operazione è ancora una volta l'efficace lavoro sugli elementi atipici del genere, come l'uso intelligente degli spazi aperti, dell'esterno giorno e dei piani lunghissimi, a conferma di come si possa costruire una buona suspense senza porte che cigolano, corridoi stretti e buie location.

Contravviene brillantemente al filone anche la cura dei caratteri, attenzione all'assassino in primis: privo di orripilanti maschere e di movenze d'automa, non fa meno paura. Anzi. Il suo volto, rivelato da subito, è solo uno dei molti possibili. Mente totalmente deviata ma ricca di sfaccettature, Mick Taylor è un cacciatore abile, un predatore spietato, un nazionalista convinto, un bifolco senza speranza, un astuto criminale, un uomo a suo modo serafico, lucido, intelligente. Sospettiamo che se non passasse il suo tempo a maciullare giovani e ignari visitatori, potrebbe persino essere utile alla civiltà. Ed è in fondo questo rompicampo psichiatrico a renderlo così inquietante e così interessante. Dal canto suo McLean non lesina sorprese, non si perde in chiacchiere, non sa cos'è il politicamente corretto. Costruito su una struttura a grappolo, senza veri protagonisti, dove ogni evento e personaggio si trascinano i successivi, ineluttabilmente, il suo è un film profondamente cinematografico e maledettamente realistico. Per quanto arraffi prestiti (Duel) e sciorini omaggi (Hostel), possiede una personalità tutta sua. Qualcosa a metà strada tra l'estetico e il ributtante, il quotidiano e l'inaudito. Sconcertante e contraddittorio, come solo può essere l'anima dei mostri. Mostri veri, figli di questo mondo.

(edit: recensione pubblicata il 30 agosto 2013, in occasione della Mostra di Venezia)