La carriera di un attore può essere strana dopo un Oscar. Come quella di Reese Witherspoon, fidanzatina d’America dopo La rivincita delle bionde, vincitrice della statuetta per il ruolo della moglie di Johnny Cash in Walk the Line.

Da allora, film sbagliati e una vita privata burrascosa. Non è un caso, quindi, che Miss Witherspoon sia rimasta folgorata dalla storia di Cheryl Strayed, ragazza destinata a un brillante futuro che dopo un’infanzia travagliata viene travolta dall’improvvisa morte della madre. Seguirà una discesa agli inferi da cui cercherà di risalire con un lungo percorso, nel vero senso della parola, interiore e fisico. Quasi duemila miglia, per l’esattezza, sulla meravigliosa Pacific Trail Crest, dal confine con il Messico alla frontiera canadese.

Wild è la storia di questo viaggio, di cui si è innamorato per primo Nick Hornby che ha tratto la sceneggiatura dal libro biografico della Strayed e che ha poi trovato la dura Reese come compagna di viaggio. Diretto da Jean-Marc Vallèe, regista esperto nell’ammorbidire il cuore degli spettatori, senza dimenticare di scuoterli quando necessario, e specializzato nel regalare ruoli da Oscar (Matthew McConaughey e Jared Leto per Dallas Buyers Club), Wild va oltre il mero prodotto hollywoodiano. Il suo pregio è la sensibilità con cui è tratteggiato il rapporto madre-figlia, vero motore della storia, scritto con partecipazione da Hornby che definisce due figure tormentate senza farne cliché. La splendida madre Laura Dern è una donna che ha sofferto e che cerca una rivincita che non arriverà. La figlia Cheryl/Reese ha l’autodistruzione nel DNA e raccoglie l’eredità interrotta per salvarsi.

Più che un Into the Wild al femminile, viene in mente lo straordinario Stories We Tell di Sarah Polley, in cui la famiglia viene tratteggiata come entità misteriosa tanto quanto i rapporti che la tengono insieme.

Il viaggio, epico nell’accezione più classica del termine, parte da qui, un’Eneide in cui la protagonista porta la genitrice sulle spalle, non solo metaforicamente, fino alla meta finale, un luogo dello spirito da dove ricominciare. Non si tratta di una geniale intuizione narrativa: in fondo tutte le storie hanno radici lontane e si evolvono con le necessarie variazioni sul tema, ed è questa una formula che si può applicare alla vita stessa, che vale sempre la pena di essere raccontata, felice o dolorosa, noiosa o spericolata. La Witherspoon cammina, lo fa con dignità e soprattutto umiltà, qualità da tempo dimenticata, mette il film nel suo capiente zaino e non spreca la fatidica seconda occasione che prima o poi a tutti si presenta. Citando il Tom Hanks di Salvate il soldato Ryan, adesso se la deve meritare.