C’è un equivoco in cui cade spesso il cinema d’autore contemporaneo e dal quale bisognerebbe sgombrare il campo: la struttura narrativa non aiuta a rendere affascinante una storia che non lo è. Joyce Wong esordisce nel lungometraggio con Wexford Plaza, presentato al Torino Film Festival 2016, e non coglie che ciò che per lei è il punto di forza del film ne diventa invece il principale difetto.

Una singola storia infatti viene scomposta in due separati punti di vista: prima Betty, ragazza sovrappeso che cerca di superare la noia di un lavoro serale flirtando con il barista del centro commerciale; poi Danny, il barista in crisi economica e sentimentale che cerca di superare i suoi impasse provando a sfruttare Betty. Wong scrive da sola una storia minimalista di solitudine, sfumando sempre i toni e i personaggi, cercando le pieghe del racconto e dei suoi toni.

Ambientando praticamente l’intero film nella piazza del titolo, sorta di cortile esterno di un centro commerciale, Wong mostra due ragazzi che cercano in modi diversi di superare l’inerzia delle loro vite, che provano in modi più o meno efficaci di dare una svolta e di prendere consapevolezza di loro. La riuscita del film però viene compromessa proprio dalla scelta della regista di raccontare i due punti di vista come due episodi distinti, separando i punti di vista, sperando che questa specularità aiuti il coinvolgimento.

Invece Wong sembra non accorgersi della forte distanza tra i due blocchi in termini di incisività stilistica, convinzione narrativa ed empatia: se il racconto di Betty è accurato e partecipe nel mostrare cosa sente e cosa vede, cosa prova e come pensa una ragazza grassa, quello di Danny si sfilaccia via via in modo più ripetitivo e stinto. Non a caso, per risollevarsi sul finale, la regista torna su Betty. Ma ormai il feeling con il racconto e con lo spettatore sembra svanito.