Per descrivere il personaggio di Fusi, protagonista dell’ultimo film di Dagur Kári, Virgin Mountain (Fúsi, 2015), probabilmente non esiste termine più appropriato di “bamboccione”.

E non solo perché stiamo parlando di un uomo di 43 anni che vive ancora a casa della madre e che trascorre i suoi pomeriggi dipingendo miniature di carrarmati della Seconda Guerra Mondiale, ma perché Fusi (interpretato dall’ottimo Gunnar Jónsson) è, di fatto, una specie di adolescente abnorme anche nel fisico, un pulcino biondo gigante, una soffice massicciata disfunzionale che si staglia contro il grigiore del paesaggio islandese. Non ha una vita sociale, lavora come addetto allo scarico dei bagagli in un aeroporto dove viene regolarmente bullizzato dai colleghi.

Grande consumatore di latte e cereali, si concede una volta a settimana di andare a cenare (da solo) in un ristorante thai dove ordina sempre lo stesso piatto. Il suo migliore amico è il dj di una radio locale con cui chiacchiera per telefono durante il programma della sera richiedendo pezzi heavy metal. Potremmo dire che Fusi è un omone, ma che il suo approccio esistenziale è decisamente piccolo: gioca a fare la guerra, ma non combatte una vera battaglia con la vita.

Il suo dramma di alienazione è una questione di scale, di enormità che cozzano contro infinitesimi: sono le proporzioni ad essere sbagliate, così come le dimensioni dei suoi spazi vitali. Gli ambienti contengono a stento il suo corpo ingombrante, che la mdp ci mostra sempre ingabbiato all’interno di cornici inadeguate: porte, finestre, lastre di vetro, abitacoli, corridoi, stanzette. Ha un cuore d’oro, eppure è più facile che venga additato come mostro: ogni suo tentativo di aprirsi verso gli altri (emblematica la relazione turbolenta che instaura con un’ex fioraia depressa) è destinato inevitabilmente al fallimento. E, dunque, a questo tenero nordico Frankenstein non resta che abbandonare il nido, inseguendo il miraggio esotico di terre avventurose e lontane.

Ancora un ritratto di estraneità, che si aggiunge a quelli che il regista ci aveva già regalato in Nói albinói (2003) e The Good Heart (2009). Un film delicato e, a tratti, surreale.