Keanu Reeves è Ramsay, un avvocato della Louisiana incaricato di difendere l’adolescente Mike, accusato di aver pugnalato a morte il padre. Le prove contro il ragazzo, che si è chiuso in un ostinato mutismo, sembrano essere schiaccianti e il verdetto finale appare scontato ancora prima dell’inizio del processo, ma l’avvocato Ramsay è deciso a provare in aula l’innocenza del suo cliente.

Una doppia verità, diretto da Courtney Hunt, parrebbe un thriller giudiziario come tanti, e in effetti, lo è, ma si segnala per una sua ambiguità di fondo che è poi l’ambiguità asfittica di tante famiglie disfunzionali. Ambientato quasi interamente nell’aula di un tribunale, il film è costellato di tanti piccoli flashback, evocati dalle parole dei testimoni, che ricostruiscono le sequenze del delitto e il contesto in cui questo è maturato.

Le parole, come le immagini, possono essere ingannevoli (non era questa la lezione di un capolavoro del genere come I soliti sospetti?), e la verità giudiziaria è spesso frutto dell’emozione suscitata, in chi è chiamato a giudicare, dai tremendi eventi rievocati in aula. A queste premesse intelligenti, tuttavia, il film non appone una chiusa adeguata, poggiando lo scioglimento su di un finale a sorpresa che appare incongruo e forzato.

Le secche di sceneggiatura vengono a galla soprattutto nella seconda parte, quando l’esigenza di un colpo di scena a tutti i costi, in grado di sparigliare le carte e le attese dello spettatore, diviene percepibile a discapito della verosimiglianza.

Venendo al cast, tasto innegabilmente interessante, Keanu Reeves curiosamente sembra immune allo scorrere del tempo (potrebbe anche essere lo stesso personaggio visto in azione ne L’avvocato del diavolo), a differenza di Renée Zellweger che, nel ruolo della debole madre dell’imputato, appare a tal punto emaciata da essere irriconoscibile; James Belushi, nei panni del padre violento, è laido e repellente a sufficienza.